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Berlinale |Recensione: “Was Marielle weiß” (What Marielle Knows)
I segreti che vorremmo tenere solo per noi

Laeni Geiseler in “Was Marielle weiß” (What Marielle Knows); regia di Frédéric Hambalek
Laeni Geiseler in “Was Marielle weiß” (What Marielle Knows); regia di Frédéric Hambalek | Foto (dettaglio): © Alexander Griesser

Che può accadere se tua figlia improvvisamente sviluppa capacità extrasensoriali? È il tema di “Was Marielle weiß” (What Marielle Knows), film sorprendentemente leggero che mescola umorismo e grande profondità narrativa.

Di Jutta Brendemühl

Julia e Tobias hanno tutto, o anche niente: una famiglia standard composta da madre, padre e figlia quattordicenne, un buon lavoro per entrambi in un contesto di medio-alta borghesia in un’anonima città di medie dimensioni. Dietro la facciata, però, covano diversi problemi. Il delicato equilibrio tra Julia e Tobias viene gravemente alterato quando la figlia Marielle improvvisamente sviluppa la capacità di vedere e sentire tutto ciò che fanno, giorno e notte, i suoi genitori, che presto si rendono conto che le bugie che raccontano a se stessi e agli altri non rimangono più nascoste. Quando vengono alla luce i loro segreti più profondi, entrambi si ritrovano in una competizione manipolatoria che porta a situazioni sempre più assurde e spiacevoli.

Una figlia che sa troppe cose

Se non avete mai sentito parlare di Frédéric Hambalek, siete in buona compagnia: con What Marielle Knows, infatti, il regista è solo al suo secondo lungometraggio, ed è auspicabile che questa partecipazione alla Berlinale gli faccia da trampolino di lancio. Il film racconta dell’immagine che si ha e si vuole dare di sé, della discrepanza tra parola e pensiero reale, della comunicazione all’interno di una relazione e della scomparsa di qualsiasi livello di privacy. Hambalek interpreta con compiacimento in diversi ipotetici scenari quell’approccio capovolto al mondo che vede un figlio improvvisamente in grado di fare e sapere più dei genitori e la sopravvenuta instabilità dei rapporti familiari. Ma proprio quando sembra che tutto fili liscio, gli avvenimenti prendono un’altra piega. Gli 86 minuti di film trascorrono piacevoli e divertenti, mentre nel pubblico si riflette su ciò che potrebbe accadere se il nostro partner scoprisse le nostre fantasie sessuali più oscene, o su quello che può succedere se la realtà non corrisponde ai nostri desideri e alle nostre promesse più segrete, o se un figlio scopre (e sfrutta) le paure e gli errori di cui si vergognano i genitori, o ancora fino a che punto saremmo disposti a spingerci per tenere in piedi le nostre finzioni e i nostri meccanismi di gestione delle situazioni.

Vittime e allo stesso tempo carnefici

Felix Kramer (Irgendwann werden wir uns alles erzählen, 2023) è Tobias, diviso tra un ideale da pater familias e un ruolo da manager creativo che non riesce a farsi rispettare da colleghe passive e aggressive. Julia Jentsch (Sophie Scholl – Die letzten Tage, 2005) veste i panni della moglie Julia, che già nei primi cinque minuti ostenta la noia della sua routine quotidiana e un evidente flirt con il collega, per poi esibirsi in una scena di sesso imbarazzante ma molto spassosa. Sicuramente sentiremo ancora parlare di Laeni Geiseler, che interpreta magistralmente la figlia quattordicenne sicura di sé e ora sensitiva, mettendo in pratica con semplicità l’inspiegabile trucco dell’onniscienza illustrato nel film. Tutti e tre i personaggi sono allo stesso tempo vittime e carnefici in un’unione deragliata, e la narrazione, che non ha ambizioni didascaliche, risulta rilassante.

Il pubblico nota che tutto ciò che accade è un’arma a doppio taglio ed è portato a considerazioni personali su (auto)stima, verità, silenzi e conseguenze sociali nell’ambito delle proprie relazioni. E man mano che la storia va avanti, prova sensazioni sgradevoli, cattive, violente, ma anche un po’ liberatorie, mentre si aprono nuove prospettive e modi diversi di affrontare le cose. La sceneggiatura è permeata da un umorismo che richiama Toni Erdmann, ma le risate spesso si fermano in gola e le riprese, abilmente oblique, spesso realizzate dalla prospettiva dall’angolo del soffitto di una telecamera di sorveglianza, enfatizzano visivamente l’assurdità delle situazioni. La gioia di sperimentare che dimostrano gli attori protagonisti sa prendere per mano con garbo il pubblico, la regia è elegante, la messa in scena leggermente stilizzata e lontana dal realismo o dalla critica sociale, senza pretese, né distacco dal mondo. Con tutta la sua precisione, Hambalek traccia con freschezza una linea irriverente attraverso la trattazione delle grandi questioni esistenziali.

Comicità e aspetti oscuri

Quando gli viene chiesto come sia riuscito a mantenere l’equilibrio tra escalation drammatica e momenti comici, il regista spiega il suo metodo di lavoro: «Volevo essere fedele a ogni scena e trovare sempre il tono giusto. Alcune scene non sapevo come sarebbero andate a finire, o meglio, un’idea ce l’avevo, ma poi, al momento di girare con gli attori mi è sembrato più opportuno fare scelte diverse. Lasciandosi coinvolgere, si trova la soluzione più adatta». E Felix Kramer aggiunge: «Diventa comico, per un genitore, cercare di accumulare punti positivi con propria figlia… si può leggere così tanto tra le righe senza essere giudicati».

Alla conferenza stampa, un giornalista spagnolo ha elogiato il film con toni entusiastici: «Non capita spesso un film tedesco intelligente e con un umorismo in grado di funzionare anche altrove». Non sono pochi neanche i lati oscuri, tra il non detto e il sotteso in una pausa inquietante, e questo permette di non scivolare mai nel cliché. Destreggiarsi tra ambiguità e sottigliezze è la caratteristica più talentuosa di Hambalek: il pubblico individua subito la fragile linea che separa onestà e franchezza, schiettezza e irriverenza, sfrontatezza e offesa.

Alla ricerca della pace sociale

«Troppe informazioni, TMI», si legge sui social. Si può, si vuole (soprav)vivere senza segreti e mantenere intatta l’immagine che vogliamo dare di noi? Julia Jentsch riassume così la questione cruciale che permea tutto il film: «Come voglio essere?».

Frédéric Hambalek non libera i suoi personaggi e neanche il pubblico, mostrando piuttosto le possibilità tra prudenza e tolleranza, tra una comunicazione più consapevole e una coesistenza più rispettosa per raggiungere una pace sociale. Questioni profonde e narrazione leggera, umoristica e assurda sono gli ingredienti perfetti per rendere divertente il concorso della Berlinale.

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