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Spiccatamente... integrati
Immigrazione o emigrazione

Trasferirsi in un Paese straniero può essere un’esperienza emozionante che apre le porte a nuove culture e opportunità, ma presenta anche alti e bassi e può prendere pieghe inattese. Dominic Otiang’a descrive il suo approccio con l’etichetta di “straniero”.

Di Dominic Otiang’a

In Germania l’argomento dell’immigrazione è costantemente al centro dell’attenzione, per cui sarebbe poco incisivo scrivere cosa accade in questo Paese senza affrontare il tema. Permettetemi quindi di dare il mio punto di vista in rappresentanza di chi è continuamente oggetto di dibattito sui giornali e in televisione.
 
Quattro anni fa il mio vicino mi ha chiesto: “Perché gente come te ha scelto di essere straniera?”. Una domanda che mi ha sorpreso, soprattutto perché a farmela era un cittadino italiano residente in Germania. A suo dire, essendo europeo, lui non era e non si era mai sentito uno straniero, così come sua figlia, che si sentiva a casa dove viveva, a Londra. “Siamo europei”, aveva specificato.

La patria: una questione giuridica o una realtà sociale?

Una cultura “woke”, che cioè apre gli occhi davanti alla discriminazione, etichetta queste persone come razziste, zittendole e mettendole all’angolo, ma è comunque una cultura che non favorisce la comprensione. Per qualche tempo ho cercato di discutere con lui, accettando inizialmente la sua opinione, il suo sentirsi a casa in Germania come cittadino europeo, benché senza alcuna conoscenza della lingua tedesca.
 
Ho fatto fatica, però, a fargli capire un secondo punto, cioè che è innegabile che una persona si senta un membro della società in cui vive; più che una questione giuridica, si tratta di una realtà sociale. La legge tiene conto di circostanze alternative sulla base della volontà della maggioranza. E cosa potrebbe essere più potente della legge? In molti sistemi di diritto, le leggi non hanno forse trasformato la discendenza biologica in figli illegittimi in nome del mantenimento dell’ordine e della moralità nella società?

Cambiano gli atteggiamenti

Il mio punto di vista, parlando con quest’uomo di mezza età, è che i fatti sociali sono immutabili, mentre cambiano quelli giuridici, se cambia l’atteggiamento della maggioranza. Gli ho anche detto che nel mio Paese c’è una città intera piena di immigrati italiani, ma che l’immigrazione non è una preoccupazione nazionale. Con mia grande sorpresa, conosceva anche quella città italo-keniota e ci era addirittura già stato per far visita ai suoi parenti italiani. Da allora mi saluta in swahili, con un “Jambo Rafiki!” (Ciao, amico mio!) ogni volta che ci incontriamo.
 
Quattro anni dopo, a Brexit decisa, gli ho chiesto se ora che la maggioranza dei britannici ha cambiato atteggiamento nei confronti dell’Europa, sua figlia non si sia trasformata in straniera, se a Londra si senta ancora a casa. Mi ha risposto con delle dichiarazioni sulla Gran Bretagna che non posso pubblicare.

A chi dà voce il dibattito sociale?

Qualche anno fa ha fatto il giro dei social network una foto che ritraeva decine di uomini che partecipavano a una conferenza, da qualche parte in Medio Oriente, intitolata “Conferenza delle donne”. Può anche darsi che fosse falsa, ma per me è stata un capolavoro, un’opera d’arte forte e provocatoria che mostrava un gruppo sociale potente e giuridicamente avvantaggiato che che si riuniva per discutere della situazione sfavorevole dell’altro gruppo della società, quello svantaggiato, nella più totale assenza delle dirette interessate, di cui non si sarebbero visti i volti e non si sarebbero ascoltate le voci. Ridicolo, no? Ma siamo sicuri che sia poi tanto diverso dai dibattiti sugli immigrati, sui rifugiati, sugli stranieri, o come li vogliamo chiamare, insomma, sulle persone in posizione giuridica svantaggiata nelle nostre società?
 
Nei telegiornali, dopo una notizia sull’immigrazione, è probabile che il servizio successivo riguardi la carenza di personale. Manca personale in quasi tutti i settori, cominciando dalle fabbriche che non hanno abbastanza operai, proseguendo con il comparto sanitario, quello dei trasporti e l’esercito, per finire con le aziende e le istituzioni che offrono apprendistati. Per non parlare del fatto che a gennaio di quest’anno la rivista Focus Online ha scritto che annualmente emigrano circa 180.000 tedeschi e che sono solo 130.000 quelli che ritornano. E nei Paesi sud-europei la situazione è ancora peggiore.

“Ce la faremo!”

Questi dati statistici e il dibattito in corso mi ricordano un viaggio in autobus attraverso la zona industriale di Nairobi, quando ho sentito un passeggero gridare a un altro che era seduto vicino a un finestrino: “Ehi, Frontex! Apri il finestrino, c’è puzza qui dentro!”
 
“La puzza viene dalle fabbriche qui fuori, se apro il finestrino è peggio”, gli ha risposto l’altro.
 
“No, aprilo per far uscire la puzza!”. L’autista, una donna con decenni di esperienza, sentendo crescere la tensione, ha lanciato uno sguardo a entrambi e ha esclamato: “Ce la faremo!”.
 

“Spiccatamente…”

Per la nostra rubrica “Spiccatamente…” scrivono, alternandosi settimanalmente, Dominic Otiang’a, Liwen Qin, Maximilian Buddenbohm e Gerasimos Bekas. Dominic Otiang’a descrive la sua vita in Germania, raccontando cosa lo colpisce, cosa gli sembra strano, quali modi di vedere trova interessanti.

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