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Humboldt Forum
L’Humboldt Forum e il dibattito sul colonialismo

Humboldt-Universität, nel quartiere Mitte, Unter den Linden. In primo piano, la statua di Wilhelm von Humboldt.
Humboldt-Universität, nel quartiere Mitte, Unter den Linden. In primo piano, la statua di Wilhelm von Humboldt. | Foto (dettaglio): © picture-alliance / Eibner-Pressefoto | Eibner-Pressefoto

Nonostante non abbia ancora aperto le porte al pubblico, l’Humboldt Forum continua a essere al centro di un acceso dibattito sul passato coloniale tedesco e sull’arte saccheggiata. Nell’autunno 2021 le sue collezioni etnologiche dovrebbero essere finalmente visitabili, ma ancora poco chiaro è il modo in cui verranno affrontate le richieste di restituzione di alcune opere africane.

Di Roberto Sassi

I fratelli Humboldt e il museo universale

A poche centinaia di metri dal nuovo castello di Berlino, al civico 6 di Unter den Linden, le statue di Wilhelm e Alexander von Humboldt sorvegliano l’ingresso dell’università che porta il loro nome. Sono alte uguale, due metri e mezzo esatti, e con la loro mole ricordano ai passanti l’importanza che i due fratelli hanno avuto nella storia della città.

Quando, nel dicembre del 2000, la commissione “Historische Mitte Berlin” propose di dedicare loro un polo culturale nell’area un tempo occupata dalla residenza degli Hohenzollern, a molti sembrò la soluzione ideale. Con le sue spedizioni e le sue ricerche naturalistiche, Alexander rappresentava l’apertura al mondo, il desiderio di conoscere ciò che è geograficamente e culturalmente lontano; gli studi linguistici di Wilhelm, ma soprattutto il suo ruolo centrale nella fondazione dell’Altes Museum, erano un simbolo altrettanto efficace del dialogo tra i popoli e tra le epoche.
Humboldt-Universität, nel quartiere Mitte, Unter den Linden. In primo piano, la statua di Alexander von Humboldt. Humboldt-Universität, nel quartiere Mitte, Unter den Linden. In primo piano, la statua di Alexander von Humboldt. | Foto: © picture-alliance / Eibner-Pressefoto | Eibner-Pressefoto I due scienziati sintetizzavano alla perfezione il progetto che cominciava a farsi strada allora: ricostruire il castello per esibirvi opere d’arte extraeuropea e farlo diventare un luogo di ricerca e dibattito. In questo modo, con collezioni provenienti da ogni parte del pianeta, la Museumsinsel sarebbe stata davvero quel “museo universale” che lo stesso Alexander von Humboldt aveva immaginato già all’inizio dell’Ottocento. 

Il passato coloniale e la “Raubkunst”

Le vicende dell’Humboldt Forum insegnano però una cosa: rifarsi al passato, benché con le migliori intenzioni, può avere degli effetti collaterali spiacevoli. Specialmente quando si tratta di una pagina controversa della propria storia, nello specifico il periodo del colonialismo tedesco in Africa. Molti hanno trovato perlomeno discutibile la scelta di ricostruire l’antica residenza reale, un edificio che richiama alla mente il militarismo prussiano, per farle ospitare delle collezioni che all’esperienza coloniale sono strettamente legate. Basti pensare che prima della Conferenza di Berlino del 1884-’85 erano appena 3.361 i manufatti africani appartenenti al museo etnologico berlinese, mentre alla fine dell’epoca coloniale, nel 1919, erano diventati oltre 50mila (oggi sono circa 75mila).

Controverso non è quindi soltanto il castello. Nel 2017, dopo essersi dimessa dal comitato di esperti dell’Humboldt Forum, la storica dell’arte francese Bénédicte Savoy ha criticato duramente la mancanza di ricerche per stabilire la provenienza di molte delle opere che verranno esposte, in particolare quelle africane. In un’intervista alla Süddeutsche Zeitung Savoy ha paragonato l’Humboldt Forum a Chernobyl, sostenendo che la Fondazione del patrimonio culturale prussiano custodisce i pezzi d’esposizione della cosiddetta Raubkunst, l’arte saccheggiata, come se fossero le scorie radioattive di un reattore nucleare.

I bronzi del Benin

In attesa di riaprire le porte, il museo etnologico di Berlino ha assicurato che le mostre saranno adeguatamente contestualizzate e sta effettuando ricerche per verificare l’origine di alcune centinaia di oggetti in suo possesso. Uno sforzo che alcuni ritengono insufficiente, soprattutto considerando la quantità di pezzi che verranno esibiti. Ad ogni modo, neanche un’indagine completa basterà a placare il dibattito. Da anni i musei africani chiedono che venga restituita almeno una parte delle opere sottratte in epoca coloniale, mettendo in chiaro che non intendono svuotare le collezioni europee, ma semplicemente riavere gli oggetti con un valore simbolico e rituale. E molti di questi si trovano nella capitale tedesca.

Nell’agosto del 2019 l’ambasciatore nigeriano in Germania Yusuf Tuggar ha richiesto la restituzione dei “bronzi del Benin”, un gruppo di placche e sculture in metallo che un tempo decoravano il palazzo reale del Benin, nell’odierna Nigeria, e che occuperanno due ampie sale dell’Humboldt Forum. Non avendo ricevuto risposta, nel dicembre scorso Tuggar ha scritto nuovamente alla Cancelliera Angela Merkel e alla Ministra della cultura Monika Grütters. Ma al momento nulla lascia pensare che i bronzi faranno presto ritorno in Africa.

Premesse non molto incoraggianti per un polo museale che si presenta come un luogo di riflessione critica sul colonialismo. Allo stesso tempo c’è chi sostiene che, senza l’Humboldt Forum e le sue contraddizioni, la polemica sarebbe rimasta confinata a un ristretto ambiente accademico. Una cosa sembra certa: il modo in cui verrà affrontata la questione della Raubkunst permetterà di definire meglio l’identità e il futuro di un museo che aspira a essere “universale”.

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