Accesso rapido:

Vai direttamente al contenuto (alt 1) Vai direttamente al primo livello di navigazione (alt 2)

Dare trasparenza alle collezioni museali
Resti umani nei musei

Cerimonia di restituzione alla Nuova Zelanda dei <i>toi moko</i> dall’Ethnologisches Museum, parte degli Staatliche Museen di Berlino, il 12/10/2020. La Stiftung Preußischer Kulturbesitz aveva deciso la restituzione a metà del 2020.
Cerimonia di restituzione alla Nuova Zelanda dei toi moko dall’Ethnologisches Museum, parte degli Staatliche Museen di Berlino, il 12/10/2020. La Stiftung Preußischer Kulturbesitz aveva deciso la restituzione a metà del 2020. | Foto (dettaglio): Christophe Gateau © picture alliance/dpa

I primi rimpatri di resti umani facenti parte di collezioni etnologiche di musei tedeschi mostrano una grande volontà di cambiamento nei confronti delle spoglie umane di provenienza coloniale. Ilja Labischinski, ricercatore che indaga sulle loro origini, illustra gli aspetti più rilevanti di un rimpatrio all’insegna del rispetto e il ruolo in questo senso della ricerca e del personale dei musei.

Nell’estate del 2020 il Consiglio della Fondazione del patrimonio culturale prussiano ha deciso di restituire due teste maori mummificate conservate presso il museo etnologico di Berlino al museo Te Papa Tongarewa in Nuova Zelanda. Le due teste sono conosciute come toi moko, definizione nella lingua maori contemporanea di determinati resti mortali degli antenati Maori. Per la Fondazione prussiana si tratta del primo rimpatrio di resti umani della propria collezione ed è inevitabile chiedersi perché si sia aspettato tanto.

A tutt’oggi le collezioni dei musei tedeschi ospitano spoglie umane di decine di migliaia di persone defunte nei territori colonizzati. Non bisogna perdere di vista il fatto che si tratta di una vasta gamma di reperti, che spaziano da teste e ossa a diverse altre parti del corpo umano utilizzate per realizzare artefatti, come capelli inseriti su un sonaglio o un osso lavorato come flauto.

Resti umani: una definizione delicata

La gamma di resti umani presenti nei musei è ampia quanto le motivazioni alla base delle collezioni: la raccolta di teste, ad esempio, è strettamente connessa alla nascita dell’antropologia come disciplina scientifica nella seconda metà del XIX secolo. In comune hanno tutti una caratteristica: per lungo tempo non sono stati considerati spoglie umane, bensì oggetti, e nei musei sono stati esposti in seguito a pratiche scientifiche e collezionistiche razziste.

L’Associazione dei musei tedeschi definisce “resti umani” tutte le forme di conservazione di corpi umani o parti di essi, sia che siano stati trattati, lavorati o non lavorati. Una definizione senz’altro delicata e problematica, poiché testimonia la degradazione a oggetti subita da esseri umani defunti al loro ingresso nelle collezioni dei musei. Se uso la definizione di “resti umani”, tuttavia, è perché è questa ad essersi affermata nei dibattiti politici e tra l’opinione pubblica. Allo stesso tempo, penso sia importante mostrare come la storia spesso violenta che è alla base delle collezioni museali permei tuttora il nostro linguaggio.

I rimpatri di resti umani dalla Germania nei Paesi d’origine sono ancora episodi isolati. La restituzione alla Tanzania della testa attribuita al capo della resistenza anticoloniale Mkwawa da parte del Museo Übersee di Brema risale già al 1954, mentre altri rimpatri di resti umani in Nuova Zelanda da parte di quest’ultimo e del Museo etnologico di Francoforte risalgono rispettivamente al 2006 e al 2011. Una pietra miliare nel dibattito pubblico e politico sui resti umani di provenienza coloniale è stato il rimpatrio in Namibia nel 2011 e nel 2014 di ossa provenienti dalle collezioni della clinica universitaria Charité di Berlino.

Le appropriazioni di ossa umane depredate da tombe o sottratte ai discendenti non sono avvenute praticamente mai con il consenso dei familiari o per lo più contro la loro volontà. Mentre il furto di resti umani ha sempre generato proteste, le richieste di restituzione sono state sempre più veementi dalla seconda metà del XX secolo.

Condizioni generali di rimpatrio

I musei, e soprattutto gli enti o le autorità ad essi preposti, aprono lentamente alle richieste, anche se in Germania, nel frattempo, la situazione è cambiata. Monika Grütters, ad esempio, durante il proprio mandato (2013-2021) a capo del Ministero della Cultura e dei Media, ha considerato di aver tenuto fede alla promessa di avvio di “primi punti chiave per un nuovo approccio alle collezioni di provenienza coloniale da parte del Governo federale, dei Länder e dei comuni” con il rimpatrio in Nuova Zelanda delle due toi moko, restituzione di resti umani di provenienza coloniale al Paese d’appartenenza.

Le linee guida 2021 dell’Associazione dei musei tedeschi per l’approccio ai resti umani conservati nei musei e in altre collezioni vedono il documento sui punti chiave di marzo 2019 come un mandato ai musei per affrontare la restituzione ed elaborano le relative raccomandazioni. Entrambi i documenti vedono nelle ricerche sulla provenienza la base per la valutazione della stessa e delle circostanze di acquisizione dei reperti museali, e quindi anche la base per le procedure di restituzione dei resti umani.

Essendo sconosciuta l’identità della maggior parte delle spoglie umane presenti nelle collezioni dei musei, le ricerche sulle loro origini hanno l’obiettivo di ricostruirne i nomi, di raccontarne le storie, in sintesi di “riumanizzare” reperti conservati come oggetti  e non come persone defunte. Purtroppo, per le due toi moko neozelandesi, non si è riusciti nell’intento: durante il periodo coloniale europeo, infatti, la domanda di queste teste mummificate era talmente aumentata che si era sviluppato un vero e proprio commercio, per cui si sa per certo solo che le due toi moko furono donate al Museo etnologico di Berlino rispettivamente nel 1879 da Fedor Jagor e nel 1905 da Hermann Meyer, mentre non è stato possibile chiarire come questi ultimi ne fossero entrati in possesso, né si è potuti risalire ai nomi o alle storie dei due defunti.

Focus sui discendenti e sui Paesi d’origine

Per un approccio alle storie personali delle spoglie umane conservate nei musei è necessario collaborare con gli enti di ricerca dei loro Paesi d’origine e per gestirle con sensibilità e avviare la procedura di rimpatrio nel dovuto rispetto occorre un partenariato con i discendenti e con la gente dei Paesi d’appartenenza. Da parte nostra, come personale dei musei, dobbiamo assicurarci che vengano assecondati i desideri e le esigenze di queste persone e, in primo luogo, siamo tenuti all’ascolto. Inoltre dobbiamo considerare che il processo di restituzione può essere molto doloroso per i familiari e i discendenti e scatenare ricordi traumatici della violenza coloniale. Non dimentichiamo che i musei sono proprio una delle cause di questi traumi.
 
Il fatto che il primo rimpatrio di resti umani dal Museo etnologico di Berlino sia avvenuto così tardi riflette un profondo cambiamento nel modo di vedere le collezioni dei musei, anche se l’esposizione presso i musei tedeschi di questo genere di collezioni non è cessata, come non se ne è interrotto l’utilizzo a fini di ricerca, benché non si disponga di informazioni sufficienti sulle circostanze di acquisizione e non si siano tenuti in debita considerazione desideri e modi di vedere delle comunità di origine.

I musei in Germania non possono considerare le spoglie umane depredate dalle tombe e usate a scopi di ricerca scientifica razzista come un qualsiasi reperto museale. Devono invece perseguire un cambiamento di mentalità, anche riguardo alla trasparenza delle loro collezioni. Molti familiari dei defunti non sanno nemmeno della presenza di loro antenati nelle collezioni museali tedesche ed è quindi nostro dovere avvicinarci in maniera proattiva a chi rappresenta gli interessi dei defunti nei rispettivi Paesi d’origine. Il fatto che manchino specifiche richieste di rimpatrio non significa necessariamente che non sussista un desiderio di restituzione, come non si deve dare per scontato che sia desiderato il rientro delle spoglie. Ecco perché è importante focalizzarsi sui desideri e sul modo di vedere dei discendenti, e non su quelli dei musei europei. In futuro dobbiamo considerare questi rimpatri sempre più come opportunità, come un nuovo avvio di relazioni con i discendenti dei defunti e con la gente dei Paesi d’origine. Te Herekie Herewini, responsabile del rimpatrio al Museo Te Papa in Nuova Zelanda, ha inoltre affermato che la restituzione rappresenta l’inizio del processo di riparazione, di cicatrizzazione e di riconciliazione da parte delle comunità coinvolte.

Top