Cultura della memoria
Immedesimarsi in una persona per comprenderne il destino
I giovani sono spesso accusati di disinteresse per la storia, eppure alcuni studi dimostrano che al nazionalsocialismo, ad esempio, sono più che interessati, benché le loro conoscenze in materia presentino spesso delle lacune. Ulrike Jensen, responsabile dell’educazione giovanile presso il memoriale dell’ex campo di concentramento di Neuengamme ad Amburgo, racconta cos’è cambiato negli ultimi decenni e come la trasmissione delle conoscenze si possa adattare in funzione dell’età.
Di Ulrike Jensen, Eva-Maria Verfürth
Ulrike Jensen, Lei organizza regolarmente visite guidate per scolaresche al sito commemorativo del campo di concentramento di Neuengamme. Qual è la Sua esperienza?
I ragazzi di 15-16 anni hanno spesso delle convinzioni errate; molti hanno delle conoscenze frammentarie in merito, ma non una visione unitaria e vedono in Hitler, che incarna il male per eccellenza, l’unico responsabile di tutto. Noi mettiamo innanzi tutto in chiaro che non è andata esattamente così, molte persone l’hanno votato e non ha agito da solo. I bambini, ad esempio, raccontano spesso di avere imparato che gli uomini delle SS (N.d.R.: le “Schutzstaffel”, o “squadre di protezione”, che gestivano i campi di concentramento, tra le altre cose) non operavano volontariamente; sappiamo invece che è falso: non c’è stato nessun responsabile della sorveglianza nei campi di concentramento delle SS che non abbia agito volontariamente. E poi parliamo anche dei margini discrezionali: se mi costringono a lavorare in un campo di concentramento, questo non significa che debba farlo con crudeltà.
Sono argomenti temi estremamente pesanti. Qual è il vostro approccio con i giovani?
Innanzitutto ascoltiamo le loro domande e poi lavoriamo concentrandoci su singole storie per instaurare dei legami personali: immedesimandosi in qualcuno, se ne può seguire e comprendere il destino. Il mio motto è non sovraccaricare, ma neanche nascondere quello che è successo. Per molto tempo, in molti memoriali si è mostrato il filmato della liberazione del campo di concentramento di Bergen-Belsen [N.d.R.: documentario basato su riprese realizzate dall’esercito britannico all’arrivo nel lager, nel 1945], ma non lo facciamo più da tempo: i destini individuali avvicinano molto di più all’argomento rispetto alla brutalità dei dettagli, che provoca piuttosto un blocco in chi osserva. Noi lavoriamo all’opposto: facciamo in modo che chi viene sviluppi sensazioni personali per comprendere a fondo ciò che è avvenuto in questo posto.
Come fate?
Noi spieghiamo il contesto: come hanno agito le SS e per quali motivi? La gestione di un campo di concentramento non era casuale: sapevano esattamente cosa stavano facendo e perché. A volte serve passare alla metacomunicazione, molte cose si possono perfettamente insegnare ai bambini grazie ricorrendo a fenomeni come l’esclusione. Nei lager le SS hanno abbondantemente adottato il principio del “divide et impera”, che funziona sempre.
Che significa “divide et impera”?
È latino ed equivale a “dividi e comanda”: che succede se divido un gruppo in più gruppetti e poi li tratto in modo diverso? Che genero divisione. I bambini lo capiscono subito e trasferiscono il concetto alle situazioni che possono capitare in classe: l’alunno preferito, che viene sempre trattato meglio degli altri, alla fine viene respinto, anche se in realtà è simpatico, perché genera invidia che prende il posto della coesione. Qui nel lager era questione di vita o di morte, contava ogni pezzo di pane ricevuto o non ricevuto. In questo modo, i giovani capiscono anche perché nei campi di concentramento non si è registrata praticamente nessuna rivolta.
Una scolaresca in visita osserva un vagone storico della Reichsbahn, simbolo dell’ex stazione del campo di concentramento di Neuengamme.
| Foto (dettaglio): © picture alliance/dpa/Markus Scholz
Sono quasi 40 anni che svolgete questo lavoro. Cos’è cambiato nel tempo?
Non molto nel complesso, anche se i giovani degli anni ‘90 potevano ancora assistere a testimonianze dirette dell’epoca. Quando si ha di fronte una persona anziana in carne ed ossa, che racconta ciò che ha vissuto qua, anche il peggior bullo rimane senza parole. Immediatamente si capisce che si tratta di storie vere di persone vere. Oggi non ci sono quasi più testimoni oculari, noi mostriamo stralci di interviste, ma manca quel contatto diretto. E comunque i giovani mostrano ancora grande interesse.
Cosa consiglia alle scuole?
Penso che l’approccio migliore sia quello delle persone e delle singole storie, e che contino moltissimo contesti e correlazioni: per esempio, se si parla della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, bisogna anche far capire che è stata una logica conseguenza della Seconda guerra mondiale: causa ed effetto, azione e reazione. Gli insegnanti non dovrebbero presentare gli avvenimenti come a sé stanti, di qualsiasi epoca si tratti, ma fare sempre dei riferimenti e tracciare paralleli con altri eventi e altre epoche.
Come si possono avvicinare meglio i giovani all’elaborazione della memoria?
Noi realizziamo progetti partecipativi da molti anni e quando progettiamo ad esempio un nuovo luogo commemorativo, raccontiamo ai giovani qualcosa sulla storia del luogo; e poi chiediamo direttamente a loro come vogliano fissarlo nella memoria, come possiamo renderlo più interessante. La partecipazione è la chiave di tutto, e anche se non significa che dobbiamo poi realizzare tutto ciò che ci suggeriscono, per noi è sempre importante ascoltarli e prendere in considerazione le loro proposte. In questo modo, i giovani si sentono presi sul serio, ed è la cosa migliore che si possa fare, anche a lezione.
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