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Psicoterapia
Kafka sul lettino

Illustrazione di un lettino con ritratto di Kafka
Illustrazione di un lettino con ritratto di Kafka | Collage di Tobias Schrank (Sunder Muthukumaran / Unsplash)

In situazioni di crisi, è utile potersi identificare con le storie degli altri. Per questo il Prof. Hantel-Quitmann, psicoterapeuta familiare e di coppia di Amburgo, ama ispirarsi a Franz Kafka. In quest’intervista spiega come la letteratura possa aiutare a risolvere dei e perché, in fondo, è stato un bene che Kafka, a suo tempo, non sia andato in terapia.

Di Franziska Strasser

Professor Wolfgang Hantel-Quitmann, ricorda la prima volta che ha letto Kafka?
 
Il mio primo approccio con Kafka è stato con La metamorfosi, una lettura assegnata a scuola che descriveva in maniera incredibilmente accurata come mi sentivo io stesso durante la pubertà, una fase di trasformazioni inspiegabili, che a volte ci danno proprio l’idea di essere un Gregor Samsa, improvvisamente trasformato in un insetto e intrappolato in un corpo che ci appare estraneo, ma con cui dobbiamo coesistere. E il sentimento dominante provato era la compassione per una persona che soffriva.
 
Com’è nata l’idea di attingere a Kafka e alle sue opere nella sua attività di psicologo?
 
Nei suoi scritti, Kafka affronta sentimenti profondi come dubbio, paura, solitudine, vergogna, senso di colpa, sensazione di impotenza, arbitrarietà e difficoltà nei rapporti familiari. Le emozioni, oggi, sono al centro della moderna psicologia e si può dire che non conosca altri autori in grado di descrivere questi sentimenti con altrettanta intensità. Per me Kafka è il letterato dei diritti umani, perché incarna il punto di vista delle vittime in maniera radicale e senza sentimentalismo.
 
Il Suo libro, pubblicato da Klett-Cotta nel 2021, si intitola “Kafkas Kinder: Das Existentielle in menschlichen Beziehungen verstehen”, ossia “Figli di Kafka: comprendere l’esistenziale nelle relazioni umane”. In che senso, secondo Lei, siamo tutti figli di Kafka?
 
Tutti noi conosciamo questi sentimenti e ne soffriamo, chi più, chi meno, e in questo senso, le sue opere sono senza tempo. Kafka non aveva figli, ma nello spirito e nei nostri sentimenti fin troppo umani siamo tutti figli suoi.

Tuttavia, spesso viene dipinto più pessimista di quanto non fosse in realtà: In America racconta la storia di Karl Roßmann, un sedicenne che viene cacciato dalla famiglia perché la bambinaia lo ha sedotto ed è rimasta incinta. Karl è un vero Sisifo, subisce molte angherie, eppure si rialza sempre e va avanti; oggi lo si definirebbe resiliente. E inoltre Kafka era un umorista, grande ammiratore di Charlie Chaplin e del genere slapstick: basti pensare alla scena de Il processo in cui gli avvocati vengono ripetutamente malmenati e spinti a terra mentre salgono le scale.
 
Come può esserci d’aiuto la letteratura nel risolvere i problemi?
 
La gente legge libri perché vi ritrova storie di persone, relazioni e sentimenti, ma in contesti diversi da quello che vive direttamente. Leggendo, ci identifichiamo con i protagonisti e, attraverso l’identificazione, sperimentiamo una purificazione dei nostri sentimenti, come nella catarsi della tragedia greca. Nello spazio sicuro di un libro, possiamo per così dire guardarci dall’esterno e, così facendo, tornare alla nostra esistenza con un cambio di prospettiva. 
 
Risolvere i problemi è una questione più complessa: ognuno di noi ha soluzioni diverse per sé, rispetto ai protagonisti dei libri, ma tutto ciò amplia il nostro margine di manovra, offrendoci diverse opzioni tra cui scegliere. Di solito, però, la lettura non sostituisce la terapia, perché le nostre difese bloccano i cambiamenti che ci causano paure e conflitti, e quindi è qui che sta la differenza tra un libro e una terapia.

Spesso consiglio la “Lettera al padre” di Kafka ai ragazzi che hanno difficoltà con una figura paterna autoritaria.

Che ruolo ha la scrittura nel superare le crisi psicologiche dei Suoi pazienti e dello stesso Kafka? 
 
Alle persone che ho in terapia, a volte consiglio di scrivere lettere al partner, ai genitori, ai figli, sedendosi in pace, formulando i propri pensieri, riflettendo su di sé e sugli altri prima di avventurarsi in discussioni che di solito sfociano in accuse, ripetizioni e vicoli ciechi. Si possono scrivere lettere anche a persone già morte. Consiglio spesso la Lettera al padre di Kafka ai ragazzi che hanno difficoltà con una figura paterna autoritaria.
 
Kafka stesso ha dovuto scrivere, non ha avuto scelta per tentare di superare le proprie crisi personali. Ed è così che sono nati la Lettera al padre per i problemi con suo padre, Il processo per la sensazione di accusa immotivata, Il castello per il sentimento di esclusione, Il digiunatore per il desiderio di trionfare contro la fame, e così via. Ha plasmato le sue relazioni attraverso la scrittura, che a sua volta gli ha dato l’opportunità di esprimere i propri sentimenti a distanza, come nel caso delle innumerevoli lettere a Felice Bauer, o di Milena Jesenská, della quale si è innamorato scrivendo.
 
Quale consiglio le piacerebbe dare a Franz Kafka nell’ipotesi in cui Le si presentasse come paziente?
 
È una bella domanda. Direi che dipenderebbe dalla sua fase e dalle proccupazioni che dovessero spingerlo a chiedere aiuto. In una fase precoce, proporrei una terapia familiare per affrontare le relazioni in famiglia, non solo con quel padre autoritario e despotico che gli negava qualsiasi apprezzamento, oltre a pretendere ancora di più per sé, ma anche con quella madre che lasciava che il marito spadroneggiasse ed era poco presente con i figli. Sua sorella Ottla era la sua ancora di salvezza nelle crisi, era a lei che si rivolgeva nella solitudine vissuta in famiglia. In realtà avrebbe avuto bisogno di aiuto tutta la famiglia, non soltanto il povero Franz.
 
Se fosse venuto successivamente da solo, sarebbero stati certamente cruciali i dubbi che lo attanagliavano, l’insicurezza interiore, la solitudine, le sue paure. E infine, ma non per importanza, la terapia lo avrebbe certamente aiutato nelle relazioni di coppia, per affrontare il tema della vicinanza/distanza, la paura della sessualità, il desiderio ambivalente di avere figli, la paura della paternità, e così via. Sicuramente ha raggiunto il suo massimo livello di apertura e franchezza nella relazione con Milena, in parte perché lei stessa era così aperta al confronto, e i due avrebbero sicuramente meritato un grande aiuto. Avevano un rapporto intellettuale alla pari, ma il pericolo sarebbe stato sempre quello di affondare insieme, come due persone che annegano aggrappate l’una all’altra.
 
Per tutta la vita, Kafka ha resistito ad andare in terapia. Se lo avesse fatto, e questa avesse avuto successo, forse avremmo dovuto fare a meno di un magnifico tassello della letteratura mondiale. E quindi, forse, è stato un bene che non ci sia mai andato.

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