Berlinale Talents 2021
Enrico Masi: “L’impegno civile non è un genere”

Enrico Masi, classe ’83, è un regista bolognese nonché fondatore e membro della Factory di cinema underground Caucaso. È stato selezionato per la “Berlinale Talents 2021”.
Di Lucia Conti
Enrico, qual è il tuo rapporto con la Berlinale e con Berlino?
Frequento la Berlinale da 15 anni e Berlino da ancora più tempo. Ricordo i primi viaggi all’alba del 2000, quando si respirava lo spirito di una città e di un’Europa pre-internet, profondamente underground.
Il tuo lavoro è sicuramente caratterizzato da un forte impegno civile. Come definiresti questo impegno?
Innanzitutto l’impegno non è un genere, ma una tensione che attraversa tutta la produzione culturale. Chiarirlo per me è fondamentale, perché in una società capitalistica occidentale domina un’ideologia legata ai generi e anche i nostri Francesco Rosi ed Elio Petri, campioni del cinema politico, sono stati confusi, fagocitati da questa necessità di etichettare tutto. Io non credo di essere all’interno di un genere e infatti continuo a battermi per un cinema ibrido, in cui il confine tra documentario e finzione viene messo in discussione.
Credo che oggi ci sia un ritorno all’impegno. È un ritorno ancora tutto da capire, ma ci sono segnali incoraggianti. Vorrei ricordare il circuito “Fuori norma” curato da Adriano Aprà, ma possiamo pensare anche ad un blockbuster come “Captain Fantastic”, con il mitico Viggo Mortensen, che cerca di farsi carico di tante istanze ambientaliste.
E quanto è “impegnata” la Berlinale?

A cosa stai lavorando adesso?
Dopo dieci anni dedicati alla rappresentazione dell’impatto dei mega-eventi nei contesti metropolitani, sto lavorando a un film su un tema di urgenza ambientale, vale a dire la transizione energetica post-atomica. Un film spartiacque per il nostro percorso espressivo, dove cerchiamo il confine dell’ibridazione dei formati. Dal microcosmo di una vicenda biografica si può arrivare al macrocosmo del pensiero scientifico. O della crisi del pensiero scientifico.
Che cosa rappresenta la dimensione della Factory, per te?
Un movimento, un turbine. Ho vissuto l’idea della factory da quando avevo 16 anni. Ho viaggiato di continuo, a San Pietroburgo e nel Caucaso, tra cineteche e luoghi della cultura alternativa, a Roma, a Berlino, a Parigi dove ho fatto il mio primo film, a Sarajevo, a Genova. E la Factory a cui abbiamo lavorato e dedicato tanto tempo, ispirata da quella di Warhol, è diventata una realtà concreta, con il quartiere generale a Bologna ai Giardini Margherita. Credo nel cinema come gesto collettivo e come sperimentazione di un linguaggio che è ancora possibile, a tratti inesplorato.
