Divario digitale
Decolonizzare Internet

Internet è caratterizzato da strutture di potere. Il colonialismo digitale mostra come le gerarchie consolidate siano radicate anche nel web. Tra attivisti e artisti cresce, però, la resistenza.
Di Ina Holev
All'inizio del millennio molti pensavano con fiducia che in Internet tutte le persone fossero uguali. Quando alla fine degli anni '50 Internet dai centri di ricerca militari ha cominciato a suscitare interesse nel mondo della scienza e in un pubblico inizialmente ristretto, a quel punto somigliava a un'utopia. Dietro la maschera dell'anonimato, tutti gli utenti dovevano essere uguali e quindi avere gli stessi diritti. Nessuna gerarchia, nemmeno tra utenti di paesi diversi.
Tuttavia questa speranza di Internet come spazio libero dalle discriminazioni rimane ancora oggi un'illusione. Al contrario: le strutture di potere sono già consolidate nell'infrastruttura tecnica e portano avanti la storia del colonialismo anche in ambito virtuale, sotto forma di “colonialismo digitale” o di “colonialismo elettronico”.
E così molti algoritmi dell'Intelligenza Artificiale sono razzisti. Molti programmi di riconoscimento facciale utilizzati nella sorveglianza non sono in grado di riconoscere le “persone di colore”. In particolare le donne nere sono spesso classificate da queste tecnologie in modo sbagliato. Ciò è dovuto principalmente ai programmatori di queste applicazioni, per lo più uomini bianchi occidentali. Per loro è molto più difficile distinguere le “persone di colore” rispetto ai bianchi. Ciò forgia, più o meno inconsciamente, la loro visione del mondo e quindi anche le tecnologie che sviluppano.
Tutto resta così come è sempre stato. Anche quando si parla di networking mondiale, rimane la divisione globale in “nord” e “sud”. Le strutture coloniali emerse a partire dal XVI secolo si ritrovano oggi in una nuova forma. Senza le materie prime del sud l'industria high-tech non riuscirebbe a lavorare. Lungo le vecchie rotte delle navi degli schiavi, le terre rare oggi arrivano al nord, estratte nei paesi del sud in condizioni talvolta terribili - il cobalto nelle miniere dell'Africa centrale ad esempio.
I telefoni cellulari, i computer e altri dispositivi elettronici delle multinazionali sono assemblati proprio nelle fabbriche dei paesi a basso salario, dove spesso si lavora in cattive condizioni.
Questo, tra l'altro, non riguarda solo la produzione di beni: nelle Filippine, i moderatori di contenuti cercano ogni giorno nei social network video violenti - per conto delle grandi aziende di social media e senza alcun supporto psicologico.
I cartelli di von Amazon, Facebook, Google…
Il colonialismo digitale, però, va ben oltre. Penetra quasi completamente nella rete e descrive “a un gran numero di persone senza il loro consenso una nuova struttura di potere quasi imperiale imposta dai poteri dominanti”, così l'avvocato dei diritti umani Renata Avila definisce questa continuità del colonialismo.Anche quando si parla di networking mondiale, rimane la divisione globale in “nord” e “sud”.
Le alternative locali, tuttavia, spesso falliscono a causa del fatto che in molte regioni del mondo non c'è alcun accesso a Internet o perché le connessioni sono troppo lente. È un dilemma, perché le offerte degli attori globali sono naturalmente utilizzate anche in molte regioni del sud del mondo. E anche lì i giganti di Internet sono fin troppo felici di fornire i loro servizi, ma non in cambio di nulla, ovviamente. Poiché qui i soldi di solito sono pochi, i clienti di questi servizi pagano principalmente con i loro dati personali.
Dei circa 70.000 autori attivi su Wikipedia in tutto il mondo, meno di 1.000 provengono dall'Africa.
L'India ha vietato questo servizio nel 2016 e, insieme ad altri Paesi, è uno dei grandi oppositori a queste forme di colonialismo digitale. Di solito si tratta di paesi che hanno alle spalle una storia coloniale e che oggi dispongono di infrastrutture relativamente ben sviluppate, in grado quindi di rafforzare i propri servizi nazionali e di conseguenza anche le economie locali. Molti attivisti locali criticano però anche questa tendenza, perché non vedono alcun giovamento per quanto riguarda la protezione dei dati: invece di aziende (per lo più) statunitensi, sono i governi e le aziende locali ad avere accesso ai dati degli utenti. È qui che la narrazione del colonialismo digitale viene usata impropriamente per la propria agenda politica.
Ciò premesso, non sorprende che tutto il sapere disponibile in Internet sia tutt'altro che gratuito e obiettivo. Wikipedia ad esempio: la maggior parte degli autori qui (e su Wikimedia, la rete aperta ad essa associata) sono maschi e molti di loro ancora una volta sono bianchi; spesso scrivono da una prospettiva privilegiata e unilaterale. “Solo il 20% dei collaboratori di Wikimedia provengono dal Sud globale”, ha constatato in un'intervista alla Deutsche Welle l'attivista internet e autrice indiana Anasuya Sengupta, fondatrice del gruppo “Whose Knowledge?” che ha lo scopo di rendere Wikipedia più varia e obiettiva.
Nel 2018 la “Wikimania”, l'incontro annuale dei Wikipediani, si è svolto a Città del Capo, per la prima volta nell'Africa subsahariana. Il sapere del continente africano in particolare è sottorappresentato: dei 70.000 autori attivi di Wikipedia in tutto il mondo, solo 14.000 circa provengono da paesi del Sud globale. In Africa, secondo Dumisani Ndubane di Wikimedia Sudafrica, non ce ne sono nemmeno 1000. Questo deve cambiare.
Le tradizioni narrative non possono essere digitalizzate
Ma il sapere vale qualcosa solo se viene archiviato in rete? L'attivista neozelandese Karaitiana Taiuru risponde a questa domanda dalla prospettiva dei Maori, sottolineando che non tutte le forme di conoscenza sono impresse per iscritto e per questo non tutte possono essere archiviate digitalmente. In questo modo Taiuru mette in risalto in particolare le tradizioni narrative orali di molte culture indigene.Spesso con la digitalizzazione si ottiene solo un consolidamento del sapere secondo i radicati modelli narrativi occidentali. Per Taiuru, ogni sapere in Internet rimane sempre incorporato nella cultura gerarchica, in quanto nella tecnologia si intrecciano le prospettive coloniali.
Nell'ambito del dibattito sul colonialismo digitale, sempre più impulsi provengono dalle arti visive, in particolare dalla new media art. Come “cyberfemministe”, molte artiste criticano le strutture di potere coloniale in rete, usando proprio gli stessi mezzi digitali. La video artista franco-guayana Tabita Rezaire, per esempio, mostra le sue opere nella cruda estetica Internet dei primi anni 2000, tornando così alle radici utopiche di Internet. Nel suo lavoro “Deep Down Tidal” Rezaire usa immagini scintillanti, voci distorte e animazioni confuse. I personaggi dei suoi video si immergono in ambienti marini in fondo ai quali si trovano quei cavi Internet che collegano soprattutto i paesi del Nord globale, lanciando così un'accusa di pregiudizio nello spazio digitale.
Renata Avila, avvocato di diritti umani del Guatemala, si augura che i critici del colonialismo digitale uniscano le loro forze e afferma che in molti luoghi Internet va cambiato pezzo per pezzo. Rimane un'utopia che un giorno ci sia un Internet decolonizzato, equo e privo di discriminazioni, di questo ne è ben consapevole. Il mondo digitale non è diverso da quello analogico.