La Legge sui servizi digitali
Un freno ai tentacoli della gestione dei dati

Quando facciamo una ricerca in internet, i risultati che ci appaiono per primi, che possono essere anche video o post sui social network, vengono determinati sempre più da pochi colossi della rete, che in questo modo non solo influenzano i nostri comportamenti come consumatori, ma forgiano anche le nostre opinioni politiche. La Legge sui servizi digitali dell’UE punta a garantire maggiore trasparenza.
Di Arne Cypionka
Cercare rapidamente un’informazione su Google, inviare un messaggio con WhatsApp, comprare un nuovo paio di scarpe su Amazon, guardare un video su YouTube, scorrere il feed di Instagram... Ci viene abbastanza spontaneo associare a certe app o siti web la maggior parte delle azioni che compiamo in rete.
Questo perché il nostro modo di usare internet, negli ultimi anni, si è concentrato sempre più: la nostra attività online, infatti, si svolge per lo più su piattaforme di Google, Facebook e Amazon, che includono anche WhatsApp, YouTube e Instagram. Nel corso degli anni, queste aziende, il cui modello di business è in gran parte basato sulla raccolta di dati personali, hanno raggiunto quasi il monopolio, perché facendo rete rendono arduo per i piccoli concorrenti accedere al mercato e pressoché impossibile per qualsiasi utente di internet aggirarle. Tuttavia, questo significa anche che i loro algoritmi svolgono un ruolo decisivo nel determinare i contenuti che attirano la nostra attenzione, le notizie e opinioni che troviamo e i prodotti che ci vengono offerti online. Questi colossi, pertanto, esercitano una grande influenza non solo sul nostro comportamento come consumatori, ma anche sul modo in cui formiamo le nostre opinioni politiche.
La trappola della bolla di filtraggio
La nota dolente è che per noi, come esterni, restano assolutamente criptici i criteri utilizzati per selezionare e ordinare questi contenuti: quali post risultino prominenti su Facebook, Instagram o YouTube, per esempio, e quali no, dipende da un lato dai contenuti sponsorizzati, cioè quei post che, a pagamento, vengono proposti con maggior frequenza; dall’altro lato, vengono impiegati algoritmi che profilano ogni utente, proponendogli individualmente con maggiore evidenza i contenuti che potrebbe trovare più adatti o coinvolgenti. Nessuno può dire con certezza quale logica utilizzino questi algoritmi di raccomandazione, poiché i codici sorgente sono strettamente riservati.Eppure la prioritizzazione ha degli effetti collaterali che influenzano persino la nostra visione del mondo: per esempio, guardando su YouTube gli interventi al Bundestag del partito tedesco di destra AfD, attraverso le raccomandazioni, si viene rapidamente deviati verso presunti esperti economici che annunciano l’imminente collasso del sistema, arrivando anche a incitare apertamente all’antisemitismo. È l’effetto della bolla di filtraggio: in internet è fondamentalmente possibile trovare informazioni su qualsiasi opinione, eppure solitamente vedremo solo ciò che già corrisponde alla nostra. Il fatto che gli algoritmi di raccomandazione, inoltre, prediligano i contenuti a carattere emozionale significa che messaggi di odio e le teorie complottiste, per esempio, hanno una forte diffusione in determinate cerchie, mentre tendono a passare in secondo piano le espressioni moderate.

Un tentativo verso una maggiore trasparenza
Per controllare questa rischiosa dinamica è indispensabile un quadro legislativo. Un tentativo dell’UE di stabilire regole di base per le aziende è il disegno di Legge sui servizi digitali del dicembre 2020, ancora in attesa di ratifica da parte del Parlamento europeo e dagli Stati membri. Questa legge prevede che le grandi piattaforme con più di 45 milioni di utenti in tutto il mondo vengano obbligate a rivelare i propri algoritmi per sottoporli a verifiche indipendenti. Inoltre, gli utenti dovranno avere la possibilità di disattivarli individualmente.Come con il GDPR, il Regolamento generale sulla protezione dei dati in vigore a livello europeo dal 2018, quindi, la Legge sui servizi digitali potrebbe portare almeno una certa trasparenza, anche perché le sanzioni che prevede sono potenzialmente severe, essendo basate sul fatturato annuale globale delle aziende e quindi facilmente in grado di raggiungere cifre a nove zeri per i grandi gestori di piattaforme. Il disegno di legge prevede anche un obbligo di interoperabilità che potrebbe aiutare a sgretolare – almeno in parte – i monopoli delle piattaforme: in particolare significherebbe, per esempio, che servizi di messaggistica come WhatsApp dovrebbero consentire lo scambio di messaggi anche con altri servizi, il che agevolerebbe l’ingresso sul mercato di concorrenti più piccoli.
Una volta ratificata, la Legge sui servizi digitali segnerà un passo importante verso la regolamentazione dei colossi della rete, ma non cambierà le loro pratiche commerciali di base, dato che la raccolta, l’analisi e il commercio di dati personali rimarrebbero quasi senza restrizioni. Va visto con favore il fatto che, in linea di principio, possano essere rimossi più rapidamente i contenuti illegali, ma resta associato il rischio di un blocco eccessivo. In caso di dubbio, finora, Facebook, Google & Co. hanno preferito non correre rischi, tendendo semmai a cancellare troppo, e non troppo poco. Il fatto che già oggi scompaiano post che non violano né i termini d’uso né la legge applicabile solleva una questione fondamentale, alla quale anche la Legge sui servizi digitali si avvicina solo a tentoni: quanto potere vogliamo dare ai colossi delle piattaforme e ai loro algoritmi riguardo alla nostra comunicazione? Sono diventati estremamente potenti, ma fino ad oggi hanno potuto eludere quasi ogni controllo pubblico. La Legge sui servizi digitali, se ratificata nella sua forma attuale, è potenzialmente in grado di contenere alcuni degli eccessi che tuttora sfuggono al controllo, ma può essere solo un primo passo verso una Costituzione digitale che chiarisca le responsabilità dei nuovi media.