“E poi saremo salvi” di Alessandra Carati
Esodo e Heimat

Il romanzo, pubblicato da Mondadori nel 2021 e finalista del Premio Strega nel 2022, racconta di Aida e della sua famiglia, profughi bosniaci in fuga dalla guerra che tentano di ricostruirsi un presente a Milano. È un’opera a cui l’autrice ha dedicato più di sei anni di lavoro, trascorsi incontrando la comunità bosniaco-italiana e viaggiando tra le macerie di un Paese che non esiste più, la Jugoslavia.
Di Gabriele Magro
La mattina del 9 Novembre 1993 un colpo d’artiglieria dei miliziani della Repubblica Croata dell’Herceg-Bosnia distruggeva il Ponte Vecchio di Mostar, nell’odierna Bosnia-Erzegovina.
Voluto dal sultano Solimano il Magnifico nel 1557, era un capolavoro dell’architettura ottomana rinascimentale: bianco e sinuoso, quando fu completato era il ponte ad arco singolo più grande al mondo. Distruggere quel ponte, che non aveva alcuna importanza strategica, serviva a colpire l’orgoglio e cancellare il retaggio culturale della comunità bosgnacca (il gruppo etnico dei bosniaci musulmani) che viveva nella città assediata.
Nel 1994, mentre era ancora in corso la guerra che vedeva contrapporsi l’esercito bosniaco alle milizie di etnia croata e a quelle di etnia serba, le cittadine e i cittadini di Mostar hanno scelto di ricostruire il Ponte esattamente com’era, con pietra proveniente dalla stessa cava da cui erano stati estratti i blocchi del sedicesimo secolo e rispettando nel dettaglio i disegni dell’originale. L’odierno ponte di Mostar, completato nel 2004 e inserito in quell’anno nella lista dei Beni Protetti come Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, è insieme un simbolo della resistenza della comunità bosgnacca e un monito triste: al di fuori del ponte, non c’è nulla che in Bosnia sia tornato com’era prima della guerra.
Gli accordi di Dayton del 1995 hanno messo fine agli scontri armati in Bosnia ed Erzegovina, ma hanno anche delineato una struttura istituzionale fragile, che fatica enormemente a rispondere alle sfide lanciate dalla disoccupazione, della distruzione delle infrastrutture e della grave crisi economica ereditata dalla guerra. Il risultato di queste politiche è un’emigrazione di massa che non si è mai fermata dallo scoppio del conflitto. Fare una stima numerica non è facile, ma già nel 2017 Balkan Insight calcolava che più della metà dei Bosniaci vivesse ormai fuori dalla Bosnia. Nel 2022, Forbes stimava che quella bosniaca fosse, in proporzione percentuale, la seconda più grande diaspora al mondo. Le più numerose comunità di emigrati bosniaci in Europa sono, con ogni probabilità, quella italiana (più di 65mila persone) e quella tedesca (più di 500mila).
Una nostalgia che ammala
“In Bosnia la guerra non è un passato, è il presente. Gli accordi di Dayton suddividono il territorio in gabbie etniche, ribadendo la separazione di un popolo che, prima, viveva mescolato. L’eredità della guerra non sono i segni dei mortai sulle facciate dei palazzi, è l’impossibilità di ricostruire una coesione sociale”, racconta la scrittrice Alessandra Carati, autrice di E poi saremo salvi, romanzo pubblicato da Mondadori nel 2021 e finalista del Premio Strega nel 2022. Il romanzo racconta di Aida e della sua famiglia, profughi bosniaci in fuga dalla guerra che tentano di ricostruirsi un presente a Milano. È un’opera a cui Carati ha dedicato più di sei anni di lavoro, trascorsi incontrando la comunità bosniaco-italiana e viaggiando tra le macerie di un Paese che non esiste più, la Jugoslavia.Quello di Carati è anche un libro sul rapporto tra genitori e figli, tra prime e seconde generazioni: “quelli che oggi hanno cinquanta, sessant’anni sentono ancora fortissimo il richiamo della madrepatria, ma i loro figli cresciuti qui non lo sentono più. E questo è un grande motivo di incomunicabilità”, racconta Carati.

Foto della scrittrice Alessandra Carati e copertine in italiano e in tedesco del suo libro E poi saremo salvi - Und dann sind wir gerettet | Foto della scrittrice (particolare): © Valeria De Cicco
Inventarsi una patria
È una strana coincidenza che una parola dalla connotazione specifica come Heimat esista sia in tedesco che in serbo-croato-bosniaco. Sono due culture che, all’inizio degli anni Novanta, affrontano lo stesso stravolgimento storico: la dissoluzione dei regimi socialisti. Sono storie con finali molto diversi, quelle della Germania Est e della Jugoslavia: una riunificazione e una frammentazione. Di comune, però, queste due storie hanno lo spaesamento morale provato da molte persone che hanno visto dissolversi nel nulla il proprio sistema di valori e, insieme, il Paese in cui erano nate e cresciute.Nel film del 2003 Good Bye, Lenin!, di Jurek Becker, il protagonista Alex tenta in tutti i modi di nascondere alla madre gravemente malata, maestra elementare e fervente socialista, la caduta del muro di Berlino e la fine della Repubblica Democratica Tedesca. In una scena del film, Alex paga in marchi occidentali due ex allievi della madre perché cantino per lei un inno della FDJ (l’organizzazione giovanile della SED, il partito unico in Germania Est) che si chiama proprio Unsere Heimat, la nostra piccola patria.
In E poi saremo salvi di Alessandra Carati, il padre di Aida (a differenza della madre di Alex, che muore alla fine del film) sopravvive alla perdita della sua Heimat, o meglio, della sua domovina, ed è costretto a inventare per sé nuovi valori, che non possono più essere la fratellanza e l’unità (bratstvo i jedinstvo) che erano il motto della Jugoslavia socialista. Questi nuovi valori sono, in un paradosso solo apparente, i valori tradizionali della religione.
Il processo di “invenzione della tradizione”, che dà il titolo a una famosa raccolta di saggi dello storico E. J. Hobsbawm, è ancora più traumatico e urgente per chi si trova nella condizione del profugo. In questo senso si spiega il riavvicinamento alla religione nelle comunità della diaspora bosniaca (ma un discorso simile si potrebbe fare per moltissime altre comunità di emigrati in tutto il mondo). Scrive Adna Čamdžić nella sua lunga intervista del 2021 ad Ahmed Tabakovic, Imam capo della Comunità Islamica dei Bosniaci in Italia: “Mancava in Italia un’istituzione che potesse aggregare le diverse componenti della comunità bosgnacca a livello nazionale, ed è interessante come il punto di svolta arrivi da un progetto religiosamente connotato”. Questo ritorno alla religione, però, nel romanzo di Carati finisce per acuire l’incomunicabilità tra le generazioni.
Quando nel capitolo 13 il padre di Aida scopre che la figlia ha una relazione con un ragazzo italiano, non può fare a meno di dirle che l’ha deluso. “Anche tu mi hai deluso”, gli risponde Aida, e poi: “hai sempre detto che hanno usato la religione per dividere il popolo jugoslavo, che eravamo tutti fratelli. E ora non vuoi che mi mescoli con altre persone. Ora te ne vieni fuori che la religione è più importante di tutto”.
La verità è che il padre vorrebbe che Aida si fidanzasse con Mirko, amico d’infanzia della figlia che decide di rimanere a vivere in Bosnia, e che più in là nel romanzo giustifica la sua scelta dicendo: “Vedi, voglio che questo posto torni a essere quello che era. Non mi interessa andare a fare lo schiavo in Germania”.
Senza retorica
Un’altra coincidenza è che il Muro di Berlino e il Ponte Vecchio di Mostar crollino nella stessa data, il 9 Novembre: del 1989 il primo, del 1993 il secondo.In quei primi anni Novanta la Germania appena riunificata accoglie, stando alle stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite (UNHCR), almeno 350 mila richiedenti asilo provenienti dalla Bosnia. Sulle vite degli Jugoschwaben (crasi di Jugoslavi e della parola Schwaben, un termine tra il dispregiativo e lo scherzoso simile al nostro “crucchi”) si è concentrato il progetto giornalistico Crossing Borders di Dženeta Karabegović su Balkan Diskurs. Il progetto racconta gli esempi virtuosi dell’accoglienza, come l’associazione SüdOst Center di Bosiljka Schedlich a Berlino, ma anche le storie difficili, come la vicenda dei duecentomila rimpatri forzati tra il 1997 e il 1998 e la scelta sofferta di almeno 13mila persone costrette a rinunciare alla cittadinanza bosniaca per poter ottenere quella tedesca.
Non stupisce, quindi, che una storia come quella di E poi saremo salvi abbia avuto in Germania una risonanza particolare. Di presentare il libro nel panorama letterario tedesco si è occupata una piccola casa editrice indipendente nata nel 2017 a Friburgo, NONSOLO Verlag, interamente dedicata alla traduzione in tedesco di letteratura italiana contemporanea, già nota per aver pubblicato autrici e autori come Paolo Di Paolo, Igiaba Scego, Chiara Valerio e Lisa Ginzburg.
“Abbiamo scelto di tradurre il libro di Alessandra perché sposa perfettamente la nostra linea editoriale. Siamo una casa editrice bilingue, a cavallo tra culture diverse: identità e migrazione sono temi vicini alle nostre sensibilità e alle nostre vite” ci ha raccontato in un’intervista la direttrice di NONSOLO Verlag, Alessandra Ballesi-Hansen, che ha anche dichiarato: “Se si riesce a superare le frontiere con un testo di letteratura, magari si contribuisce a creare il clima culturale che serve ad abbattere dei muri. Certo, l’editoria è un settore in crisi e le persone leggono sempre meno. Però noi ci crediamo. Un amico editore, svizzero, una volta mi ha detto scherzando: quando una persona ha un po' di soldi da parte e decide di buttarli dalla finestra, fonda una casa editrice indipendente. Se non credessimo, senza retorica, che i libri possono essere un ponte tra una lingua e l'altra, tra una cultura e l'altra, non avremmo davvero nessun motivo di fare ciò che facciamo”.