Attivismo internazionale | di VICTORIA BERNI
Gli attivisti per il clima di tutto il mondo si ispirano e sostengono a vicenda

Attivisti di No Borders e rifugiati vicino al confine italo-francese
Questo esempio dimostra che la lotta contro il cambiamento climatico non conosce confini: attivisti di No Borders e rifugiati vicino al confine italo-francese | Foto (dettagio) : © MAXPPP

Le strutture sociali coloniali, capitaliste e patriarcali fanno sì che il cambiamento climatico abbia un impatto diverso sugli esseri viventi a seconda delle zone. Per contrastarlo, l’attivismo sta facendo rete nel mondo. Come funziona la collaborazione al di là delle frontiere? Baïa, 27 anni, militante per un’ecologia decoloniale, e Jo, 38 anni, attivista altermondialista, condividono le loro esperienze di attivismo internazionale.

Di Victoria Berni

Uniti nella lotta oltre le frontiere 

L'economa globalizzata ereditata dal colonialismo ha dato origine in qualche modo a un internazionalismo militante. Come ad esempio, tra la Francia e i territori francesi d'oltremare sulla questione del clordecone, un insetticida usato massicciamente nelle piantagioni di banane in Martinica e Guadalupa dal 1972 al 1993, che ha contribuito a rendere il cancro alla prostata più diffuso nelle Antille che altrove. Baïa, 27 anni, riferisce come gli attivisti nei territori d'oltremare e nella Francia continentale stiano ora riflettendo su come interrompere le catene di approvvigionamento per portare l'attenzione sul problema. 
 
L'internazionalismo militante può anche essere fonte di sostegno diretto alle lotte locali, come ad esempio nel caso delle proteste per ostacolare il trasporto delle scorie nucleari, che a partire dagli anni ’90 si svolgono lungo il confine franco-tedesco.
 

Imparare dagli altri e fare amicizia 

Jo ha iniziato il suo attivismo a 18 anni attraverso il movimento altermondialista, quando ha iniziato l'università: “Era l'epoca dei contro-summit internazionali. Nel 2001, il primo Forum Sociale Mondiale si è tenuto a Porto Alegre in Brasile”. Jo dice che questi incontri erano un'opportunità per incontrare attivisti da ogni parte: “Passavo da un mondo militante all'altro. Questo mi ha fornito un bagaglio in termini di comprensione globale dei mondi e dei problemi degli attivisti.”
 
Jo spiega che: “gli incontri internazionali giocano un ruolo fondamentale nel conciliare le azioni di resistenza e nel dare visibilità alle lotte locali.” Questa conciliazione avviene anche attraverso le generazioni, come ad esempio nel caso della Street Medicine, una misura di resistenza nata negli anni ’60, sviluppata dal Black Panther Party e dal Movimento Indiano Americano, e praticata e insegnata oggi in luoghi di resistenza nucleare come Bure o anche nelle mobilitazioni dei Gilet Gialli.
 
È nel solco di questa stessa idea di trasmissione militante internazionale e transgenerazionale che Baïa traccia il suo approccio ecologico: “Come persona di origine africana, raramente hai accesso alla terra, perché da dove vengo io, i nostri terreni sono inquinati e non ci appartengono. Così mi ispiro alle tattiche dei maroons, una forma di resistenza ecologica e sociale che i neri adottarono nelle colonie schiaviste, fuggendo sulle montagne e nelle alte foreste e riuscendo a vivere lì a volte per anni, sviluppando la rotazione delle colture e l'autogestione. Come loro, andare a conquistare nuove libertà, per esempio nella resilienza alimentare, è trovare un'ancora nella mia lotta.” 

Limiti, sfide e obiettivi dell'internazionalismo 

Per Baïa, la sfida è una “specie di imperialismo: persone che non sono direttamente interessate rivendicano per sé certe lotte. Sono loro a decidere di cosa ha bisogno l'altro, come spesso accade negli aiuti umanitari. Questo, a sua volta, mantiene le persone in uno stato di dipendenza.” Secondo Jo, “dalla fine del movimento anti-globalizzazione nei primi anni 2000 l'internazionalismo è stato un po’ dimenticato. La conoscenza non è stata tramandata, inoltre gli attivisti* sono invecchiati e la questione è stata dimenticata troppo in fretta. Manca una cultura dell'attivismo internazionale.”  
 
Cosa si può fare per contrastare tutto questo? Per Jo, “non esiste una ricetta perfetta. Abbiamo bisogno di ricreare spazi internazionali di incontro e di scambio di idee sulle diverse azioni. Dobbiamo perfezionare insieme le nostre conoscenze, rinnovare gli strumenti cercando di preservare le differenze per non avere una massa omogenea.”
 
Si potrebbe dire molto di più su come le strutture coloniali influenzano l'attivismo climatico. Matilde dal Portogallo continuerà quindi queste riflessioni nel suo contributo, disponibile dal 15 luglio!
 

“Blog, engage, act!” – III stagione

Nel mondo la crisi climatica ha un impatto molto eterogeneo sulle persone. Poiché aggrava le discriminazioni, è importante tenere d’occhio aspetti come il classismo, il razzismo, il sessismo, il (neo-)colonialismo, così come altri problemi da contrastare, sia dentro, sia fuori dai movimenti per la giustizia climatica.
 
Nella III stagione di Blog, engage, act! i/le nostr* blogger guardano quindi agli obiettivi chiave che si prefiggono i movimenti: quali sono le differenze e quali i punti comuni più utili? Come favorire la consapevolezza dell’ingiustizia? E soprattutto come dare voce in capitolo a chi ne è colpito, in un mondo dominato dalle disuguaglianze?

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