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Byung-Chul Han
L’inattività è ciò che ci rende umani

Lectio magistralis: La società della stanchezza
Immagine (particolare): Franz von Stuck, Lucifer (1891) © The National Gallery Sofia | Grafica: © Scuderie del Quirinale

I capelli raccolti in un codino e gli abiti informali, Byung-Chul Han è perfettamente a suo agio di fronte al pubblico che riempie l’Auditorium del Goethe-Institut e che non perde una parola di ogni sua frase. Byung-Chul Han è un filosofo tra i più letti e più tradotti tra i contemporanei, è nato in Corea, ma vive da molti anni in Germania, dove insegna Filosofia e Studi Culturali alla Universität der Künste di Berlino.

Di Giovanni Giusti

La lectio magistralis inizia con il racconto di un viaggio, il suo, trentasette anni fa, dalla Corea alla Germania. “Per me viaggiare significa trasformare la mia anima” dice, quasi come un aforisma. Byung-Chul Han si fermerà a Roma per qualche tempo, proprio da viaggiatore, come si definisce, e non da turista, ospite dell’Accademia Tedesca a Villa Massimo.

LA PANDEMIA E LA SOCIETÀ DELLA STANCHEZZA

“La società della stanchezza”, pubblicato in Italia da Nottetempo nel 2012, è forse il suo libro più conosciuto, tradotto in più di 20 lingue, e che sta rivedendo alla luce degli effetti della pandemia. “La pandemia ci ha lasciato più depressi” dice “e l’ozio della pandemia ci ha stancati. Perché siamo così stanchi? La stanchezza è diventata un fenomeno a sé, sembra esserci una pandemia della stanchezza.”

La pandemia ha messo in luce i sintomi di una malattia di cui la società già soffriva. “Quella strana stanchezza che abbiamo e che non finisce con il nostro lavoro”, secondo Byung-Chul Han “ci accompagna anche nel tempo libero. È possibile riprendersi dalla stanchezza del lavoro ma non dalla stanchezza che deriva dall’ansia da prestazione”. Fino al paradosso che è proprio la nostra libertà a produrre le costrizioni che ci portano alla depressione e al burnout. E simbolo di questa costrizione è lo smartphone, “un campo di lavoro mobile che funzione senza guardie” lo definisce, “e il like è un amen digitale, quando mettiamo un like ci sottomettiamo. Lo smartphone è un confessionale dove non chiediamo perdono ma attenzione, e il like è la benedizione che ci salva.”

L’INFERNO SVUOTATO

L’incontro con Byung-Chul Han è inserito nelle manifestazioni collaterali alla mostra Inferno delle Scuderie del Quirinale, che in occasione dei settecento anni dalla morte di Dante Alighieri ha per tema la presenza del concetto di inferno e dannazione nell’iconografia e nel pensiero, dal Medioevo ai nostri giorni. “Stiamo abolendo l’Inferno di Dante” è la sua tesi “sostituendolo con un nuovo inferno, per la sopravvivenza sacrifichiamo tutte le cose per cui vale la pena vivere, gola, lussuria, pigrizia. E la società digitale sta eliminando anche gli eretici.”

LA CAPACITÀ DI “NON FARE”

Parlando di Dante, Byung-Chul Han parla anche del nuovo libro cui sta lavorando e che prende in esame, proprio sulla scia di Dante, gli aspetti della vita attiva e della vita contemplativa, traendone una sorta di celebrazione dell’inattività. “Oggi percepiamo la vita solo come attività, vediamo l’inattività come un deficit” dice, “ma l’inattività non è un’assenza di attività, è una capacità in sé che ha una sua magia. L’attività è sfruttabile, e il regime neoliberale ci schiavizza perché rappresenta una continua chiamata all’attività. Sembra un richiamo alla libertà e invece siamo sfruttati, rendendo anche impossibile un’eventuale rivoluzione. Anche il tempo libero è un derivato del lavoro, fa parte della catena del lavoro. È invece la pratica dell’inattività che libera veramente il tempo perché l’azione in sé non è generatrice di cultura, sono le dissolutezze, le deviazioni, a formare la cultura. La cultura sono gli ornamenti, è ciò che ci emancipa da qualsiasi scopo non finalizzato al funzionamento.” L’inattività, dunque, è la tesi di Byung-Chul Han, è ciò che ci rende umani, perché l’attività, come semplice sequenza di problema/soluzione, è propria degli animali. Ma non solo. “Se perdiamo la capacità di ‘non fare’”, conclude, “diventiamo macchine.”

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