Roma Bottomap Intervista a Tommaso Garavini di OZ Officine Zero

La nostra indagine sulla creatività nella città di Roma arriva a Portonaccio, dove abbiamo incontrato una delle figure più interessanti presenti all’interno di OZ Officine Zero.
Ogni anno milioni di persone visitano Roma, affascinate dal patrimonio archeologico concentrato per lo più nel centro storico della città, ma chi la vive sa che i suoi confini si estendono ben oltre le antiche cinte murarie. Il quartiere Portonaccio si sviluppa non distante dal Cimitero Monumentale del Verano, pochi chilometri a est dei monumenti più visitati, e deve il suo nome alla presenza di un antico arco diruto – le cui tracce sono state visibili fino agli anni settanta – addossato all’osteria detta appunto di Portonaccio.
L’urbanizzazione di questa zona in età moderna si è sviluppata in modo selvaggio, ignorando le numerose preesistenze archeologiche sin da quando, durante il governo Mussolini, il territorio fu adibito ad area industriale, della quale conserva ancora oggi i tratti estetici più peculiari.
Da Officine RSI a OZ Officine Zero
Negli anni ‘20, in via Umberto Parini fu edificata un’area di quattro ettari per ospitare le Officine RSI. Qui, per conto delle Ferrovie dello Stato, oltre cento operai si occupavano della manutenzione e della ricostruzione delle carrozze dei treni notte, lavorando acciaio, legno e tessuti con presse e strumenti di precisione. Nel primo decennio degli anni duemila, dopo un periodo di decadenza innescato dall’avvento dell’alta velocità, l’officina fu infine estromessa dal sistema ferroviario e costretta a chiudere le proprie attività. Dopo la cassa integrazione e il licenziamento definitivo, gli operai occuparono gli stabilimenti e decisero di renderlo accessibile alla comunità: in quella stessa area è nato OZ Officine Zero, un progetto di rigenerazione del lavoro attraverso la condivisione di spazi.Tommaso Garavini, un percorso movimentato
Una piccola porzione di questi luoghi – affacciati sull’ampio cortile ombreggiato da folti alberi dall’alto fusto – ospita lo studio di Tommaso Garavini, designer romano, co-fondatore del collettivo Rota-Lab, figura di spicco coinvolta nel progetto OZ.«Disegnare, sin da quando sono piccolo, è una delle cose primarie della mia vita. Ho dipinto e partecipato a molte mostre, ho lavorato con la scenografia sia al cinema sia al teatro. Ho sempre definito l’attività artistica “un sublime psicologo”, perché se senti la necessità di risolvere i tuoi conflitti interiori, attraverso l’arte riesci a farlo. Crescendo le difficoltà sono diminuite, il mio modo di esprimermi è cambiato e la bidimensionalità dei quadri cominciava ad essere un limite: ho iniziato a privilegiare le forme tridimensionali, così sono arrivato al design, perché racchiude in sé un po’ tutte le caratteristiche di cui avevo bisogno, compresa una componente pratica.»
Il lavoro di Tommaso è il riflesso di un movimentato e intenso percorso di vita. In ogni progetto del suo portfolio, attraverso la materia utilizzata – che sia scartata da altri o semplicemente già logorata dal tempo – emergono assieme un passato da conservare e un futuro in là dal divenire. Queste caratteristiche finiscono per definire il suo stile, organico e naturale. Molti dei suoi progetti nascono per soddisfare il desiderio di un committente, enfatizzandone ancora di più l’unicità e l’aspirazione di sostituire, ad un arredamento standardizzato, la ricerca di personalizzazione, particolarità e durevolezza.
L’artigianato che non può morire
Dopo un periodo nel mondo della scenografia, Tommaso decide di mettersi in proprio insieme al designer André Philippe Solari; seduti su un pontile del lago di Castel Gandolfo, nel maggio del 2006 decidono di dar vita a Rota-lab, un collettivo che nel tempo si è ampliato accogliendo altri due amici: Giorgio Mazzone, laureato in Printmaking and photography all’University of the Arts in Philadelphia e Carla Rak, dottoressa di ricerca in Scienze della Comunicazione. Sparsi per l’Italia, portano avanti la loro visione di design e artigianato sia come collettivo sia individualmente.«La mia impressione è che al momento convivano due figure: i nuovi artigiani, di cui facciamo parte noi, e i vecchi artigiani. Mi succede spesso di confrontarmi con la vecchia scuola e mi rendo conto che il legame con la tradizione blocca la sperimentazione, attitudine essenziale per sopravvivere in questo ambiente. Il design oggi sta dedicando le sue attenzioni all’immaterialità. In una recente conferenza a cui ho partecipato a Napoli mi è stato chiesto: “Ma alla luce di questi cambiamenti, il vostro approccio al design come si applica?” e io non sapevo esattamente come rispondere perché effettivamente il nostro lavoro, legato alla materia e alla sua lavorazione, va verso una direzione del tutto opposta. Ma io credo che un artigianato di grande livello abbia un potenziale troppo prezioso, generato dalla sua bellezza e dalla sua durata nel tempo. Questo tipo di artigianato non può morire.»
Secondo Tommaso, la tecnica è il punto di incontro tra il vecchio e il nuovo artigianato: se appresa e applicata con creatività all’interno di una visione innovativa, può portare a risultati positivamente inattesi.
«Uno dei miei passatempi preferiti – condiviso con il resto dei ragazzi di Rota-Lab – è visitare fabbriche abbandonate come questa per andare a caccia di materiali ormai in rovina. Il tempo che passa è la mia grande passione: consuma la materia e la trasforma. Qui, fuori dal mio studio, c’è un tavolo di marmo e ferro di grandi dimensioni. Più volte mi è stato chiesto se fosse in vendita e quale fosse il suo prezzo. Una volta svelata la cifra, la risposta è sempre stata “Ma è tantissimo, è pure rovinato!”. Per me non è deteriorato, ha già una storia e questo è un valore in più. Quello che costruisco deve poter vivere nel tempo: lì sta la mia soddisfazione».