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Algoritmi
Il capitalismo digitale è un falso empowerment

La nostra vita quotidiana è quasi interamente digitalizzata. Quali sono le ripercussioni? E come si potrebbe ripensare il “capitalismo digitale”?
La nostra vita quotidiana è quasi interamente digitalizzata. Quali sono le ripercussioni? E come si potrebbe ripensare il “capitalismo digitale”? | Foto (dettaglio): © Adobe

Usiamo strumenti digitali per lavorare, fare acquisti, leggere, giocare, per non parlare di tutte le attività che svolgiamo sui social. A casa c’è Alexa a semplificarci l’organizzazione quotidiana e al polso abbiamo uno smartwatch che ci avvisa di muoverci di più. È digitale tutto l’ambiente che ci circonda. Con Tung-Hui Hu, esperto di media che svolge ricerche sull’esaurimento e sulla delusione nell’era digitale, abbiamo parlato di come la stanchezza digitale influisca sulla nostra vita, anche quando siamo offline.

Di Johannes Zeller

Tung-Hui Hu, nel Suo ultimo libro Lei sostiene che il capitalismo digitale ci ha condotti in un’“era della disconnessione”. Che cos’è il capitalismo digitale e come ci influenza nel quotidiano?

Il capitalismo digitale è l’estensione del capitalismo non solo ai dati e alle informazioni, ma anche alla mediatizzazione della vita quotidiana: il capitalismo digitale ci influenza infatti anche quando siamo offline, ad esempio mediante i processi algoritmici, che influscono sul nostro modo di fare acquisti o sul nostro sonno e ci spingono costantemente a esprimerci personalmente e in maniera autentica, a dare la nostra opinione, a prendere decisioni, a essere attivi e impegnati. Tutto ciò può risultare piuttosto estenuante e condurre a quello stato di stanchezza digitale che io definisco “letargo digitale”, come scrivo nel libro che così ho intitolato.

Lei descrive la stanchezza digitale come quello stato in cui “non si vuole essere se stessi, perché esserlo diventa un peso”. Può farci un esempio?

Immaginiamo un autista di Uber che vuole ottenere un’alta valutazione: il consiglio che gli viene dato è di essere se stesso con i clienti, di parlare dei propri interessi e hobby, di presentarsi come parte autentica della città e così via. Ma essere se stessi non è un fattore importante solo per chi lavora a contatto con la clientela: è la nuova forma di lavoro. Credo che sempre più persone abbiano piuttosto in odio questa sensazione di dover essere costantemente presenti, come se il vero scopo fosse quello di produrre più dati per gli algoritmi di personalizzazione. La stanchezza digitale si manifesta quando vogliamo essere passivi e passare oltre, senza interagire o prendere decisioni. Sebbene questa sorta di apatia ci faccia sentire più come dei robot che non come persone, allontana anche quella richiesta irrealistica di essere costantemente attivi.

Dieci o vent’anni fa, sulla scia della Primavera araba, ha destato grande interesse il concetto di “empowerment digitale”: l’idea era di poter utilizzare la tecnologia per organizzarsi nella lotta contro l’oppressione. Che ne è stato di questa idea?

L’empowerment digitale è stato completamente assorbito dal capitalismo digitale: con la scusa dell’empowerment, il capitalismo digitale incoraggia gli utenti non solo a cliccare e condividere, ma anche a ribellarsi e resistere, ma si tratta di una fantasia di azione individuale anziché collettiva, una fantasia secondo la quale oggi essere forti equivale a essere politici. È una cosa profondamente radicata nella storia della cultura digitale. Nella Silicon Valley degli anni ‘70 e ‘80, l’empowerment digitale è nato dall’idea che su Internet chiunque potesse ribellarsi all’autorità e che nessuno potesse metterlo a tacere o censurarlo. L’effetto del capitalismo digitale è un fake: prende solo una minima parte di ciò che è l’attivismo – la capacità di critica, per esempio – e fa in modo che si dispieghi su una piattaforma di raccolta dati come Twitter. Molte delle tattiche che sembravano efficaci dieci o vent’anni fa sono state integrate nel sistema. Penso quindi che sia giunto il momento di pensare a nuove tattiche.

Che tipo di tattiche potrebbero essere?

In primo luogo, dovremmo chiederci chi viene escluso dalla politica che fa rumore, ossia chi ha la pelle scura e chi vive nel Sud globale. I media sono sempre alla ricerca di forme di protesta eroiche, ma dovremmo guardare piuttosto alle modalità creative, riflettendo su come si mantengono a galla nell’economia digitale e come traggono le energie per perseverare. In secondo luogo, dovremmo adottare forme di non-azione, come bighellonare online o fare qualche rinuncia silenziosa, rinunciare in silenzio, che ci allontanino dai valori di produttività e (auto)crescita promossi dal capitalismo digitale. Dobbiamo pensare a tattiche che facciano meno rumore, generino meno conflitti e non presentino necessariamente elementi di resistenza.

Funzionerebbe ancora oggi una “Primavera araba”? Le proteste per una maggiore democrazia, come qui in Egitto nel 2012, sono state organizzate principalmente attraverso i social media. Secondo Tung-Hui Hu è arrivato il momento di adottare nuovi approcci.

Funzionerebbe ancora oggi una “Primavera araba”? Le proteste per una maggiore democrazia, come qui in Egitto nel 2012, sono state organizzate principalmente attraverso i social media. Secondo Tung-Hui Hu è arrivato il momento di adottare nuovi approcci. | Foto (dettaglio): © picture alliance/dpa/wostok P/Virginie Nguyen Hoang

Quali strutture rendono possibile il capitalismo digitale?

Il capitalismo digitale richiede uno sforzo e un lavoro enormi per mantenere in funzione il sistema. Il lavoro viene svolto da chi estrae il litio per i dispositivi elettronici, da chi addestra l’intelligenza artificiale o dai magazzinieri che imballano e spediscono i dispositivi. Si crea così una sottoclasse digitale che comprende tutte le persone della catena di fornitura che non solo non sono visibili, ma vengono deliberatamente oscurate e trattate come se fossero robot. Anche in questo caso, il tutto avviene con la scusa dell’empowerment. Un esempio è quello di un’azienda che è venuta in Kenya dichiarando come intenzione la creazione di buoni posti di lavoro e presentato l’apertura di una sede in Kenya come un’azione umanitaria, ma i posti di lavoro che ha generato sono terribili: ad esempio moderatrici e moderatori di contenuti che devono guardare tutto il giorno video violenti. Naturalmente, ci sono anche sovrapposizioni con altre forme di capitalismo; estrarre risorse dal suolo non è molto diverso dall’estrarre dati e ad esempio lo Zimbabwe ha venduto l’accesso all’intero database dei propri elettori a un’azienda cinese che voleva addestrare il suo software di riconoscimento facciale sui volti di persone nere.

Questa “sottoclasse digitale” è concentrata nel Sud del mondo?

In effetti la sottoclasse digitale si è concentrata nel Sud globale, ma esiste anche nei Paesi ricchi. Negli Stati Uniti, ad esempio, Amazon ha pubblicizzato l’esecuzione di micro-compiti come possibile “hobby divertente” per casalinghe. Di fatto, però, le disuguaglianze sono già radicate e il capitalismo digitale le sta semplicemente rafforzando. Pensiamo ad esempio ai call center, dove le persone lavorano tutto il giorno come robot con mansioni ripetitive: spesso vengono esternalizzati in Paesi a basso reddito come le Filippine. Il capitalismo digitale è un agente di disumanizzazione e sta tentando di insegnarci che alcune persone valgono meno di altre.

È possibile ripensare o regolamentare il capitalismo digitale per renderlo meno disumanizzante?

Il GDPR, Regolamento generale sulla Protezione dei dati dell’UE, ha dimostrato che regolamentare i dati è possibile. Anche il capitalismo digitale può essere ripensato. Internet è organizzato in piccole “aree di vicinato” che si adattano ai gusti specifici dell’utente, che si trova così circondato da persone che di suo gradimento, ma è un sistema che può risultare dannoso perché fa nascere delle bolle di filtraggio. Potremmo cambiare questa situazione organizzando i social in modo diverso: mentre al momento sono incentrati per lo più sul “rumore” e sulla rabbia delle persone, la professoressa Wendy Chun suggerisce di progettarli attorno all’indifferenza, in modo che lo scrolling si avvicini maggiormente a una passeggiata in città, che ci metterebbe più facilmente in condizioni di restare indifferenti rispetto a un passante, piuttosto che a farci dichiarare immediatamente d’accordo o in disaccordo. Tuttavia, il passo più grande che possiamo fare concettualmente è quello di allontanarci dalle esigenze dell’utente iper-individuale, nella progettazione delle reti, per concentrarci invece sui modi di vivere collettivi.

Chi beneficia maggiormente del capitalismo digitale?

Il capitalismo digitale richiede la concentrazione di dati sulle piattaforme. Le aziende che traggono i maggiori vantaggi sono quelle che hanno i soldi per concentrare gli utenti sulle loro piattaforme e poi bloccarli al loro interno.

La maggior parte di queste aziende ha sede negli Stati Uniti. Gli Stati BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e altre nazioni stanno sfidando apertamente l’ordine mondiale unipolare. Che ruolo avranno i dati e il capitalismo digitale nella battaglia per il potere?

Una delle idee originali di Internet era che fosse universale. E questa è un’idea molto occidentale, perché “universale” significa in realtà liberismo e libero mercato. Dopo il 1945, gli USA hanno promosso l’ideale di un mondo con libertà globali, ma negli ultimi dieci anni quest’egemonia è diventata sempre più fragile: gli Stati Uniti non controllano più i servizi dei domain name, i nomi di dominio nel web; la Cina si è sempre mossa autonomamente e il Brasile non accetta più che l’Agenzia statunitense di la sicurezza nazionale controlli tutto il traffico che passa attraverso il suo Paese. Oggi ci sono molte diversi Internet che non comunicano tra loro. Sarà interessante seguirne gli ulteriori sviluppi.

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