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Intervista con Manja Präkels
Quando mangiavo ciliegie sotto spirito con Hitler

Manja Präkels: Quando mangiavo ciliegie sotto spirito con Hitler
© Goethe-Institut Niederlande

Nata e cresciuta nella DDR, Manja Präkels racconta nel suo romanzo d’esordio “Als ich mit Hitler Schnapskirschen aß” (“Quando mangiavo ciliegie sotto spirito con Hitler”, Voland 2023) una storia fittizia, ma ispirata a un vissuto personale, tra radicalizzazione e violenza, dopo la caduta del comunismo. In quest’intervista, la scrittrice descrive queste esperienze e la lezione che i giovani di oggi possono trarre dalle storie che riguardano un’epoca che non hanno vissuto in prima persona.

Di Sinah Grotefels

Nel Suo libro “Quando mangiavo ciliegie sotto spirito con Hitler” parla della radicalizzazione all’Est, dopo la caduta del Muro di Berlino. Perché ha scelto di ambientarlo a Zehdenick, la Sua città natale? E là, oggi, può ancora farsi vedere?

Nel romanzo ho creato Havelstadt, un luogo immaginario, ma Zehdenick, città in cui sono nata, ha fatto senz’altro da calco. Comunque i due luoghi non sono identici tra loro, anche perché il mio libro, nonostante abbia aspetti autobiografici, resta finzione. Credo sia importante sottolineare che, di luoghi come questo, ce ne sono e ce ne sono stati molti, e che l’ondata di odio e violenza razzista degli anni Novanta, alla fine, si è estesa a macchia d’olio in tutto il Paese. Anche gli sconvolgimenti sociali che hanno accompagnato il radicale mutamento hanno avuto un impatto simile sulla maggior parte dei luoghi. L’agitazione suscitata dal libro, comunque, è stata certamente maggiore a Zehdenick che non altrove; molti hanno l’impressione di riconoscersi nei personaggi, qualcuno si rifiuta addirittura di leggere il libro. In particolare, il fatto che abbia voluto dedicarlo a una vittima della violenza dell’estremismo di destra che, riversa a terra, è stata uccisa a calci da giovani di questa città, ha generato rifiuto e ostilità, ma anche rispetto e una necessità impellente di ricordare.

Quando è caduto il Muro, Lei aveva 15 anni e viveva nella provincia brandeburghese. Che ricordi ha di quel periodo?

Molti. È stato un periodo intenso e sfrenato: la vita sembrava correre, un sistema andava a sostituire l’altro a una velocità che sembrava quella della luce. Stava accadendo molto di più di quanto potessimo di elaborare o capire, si spaziava da momenti e sensazioni di euforia per l’improvvisa apertura delle porte sul mondo, per le uscite al mare e per i primi contatti con culture e lingue che poco prima erano stati irraggiungibili, a momenti di grande ansia, soprattutto in relazione alla catastrofe sociale, alla chiusura delle fabbriche e ai licenziamenti di massa.

Qual è il legame tra caduta del comunismo e rafforzamento della scena neonazista nella Germania Est?

Nella Germania Est, come all’Ovest, esistevano già prima del 1989 delle reti di estrema destra che si conoscevano e si sostenevano a vicenda, nonostante il Muro. Per la DDR era un enorme tabù, poiché il mito fondante della “Germania migliore”, costruito anche dagli oppositori del nazismo, si basava sulla sua forte tradizione antifascista. Dopo la caduta del Muro e il crollo del sistema, vecchi e nuovi nazisti a Est e a Ovest si sono letteralmente riuniti e, nel caos di quel periodo di sconvolgimento, durante il quale polizia e tribunali non erano più (o non ancora) funzionanti, sono riusciti ad ottenere un controllo duraturo degli spazi pubblici e una forte influenza su bambini e giovani disorientati della DDR che, dopo la chiusura di molte strutture, locali e centri giovanili, si sono ritrovati letteralmente per strada.

Nel Suo libro parla di amici che si trasformano in neonazisti. Che rapporto ha con quest’argomento?

La mia fascia d’età comprende numerosi personaggi che hanno incarnato l’estremismo di destra, come gli assassini della NSU Beate Zschäpe, Uwe Mundlos e Uwe Bönhard. Alcuni di loro sono ancora molto attivi nelle reti neonaziste o nel partito AfD. All’epoca, ho vissuto in prima persona la radicalizzazione di amici e vicini di casa: mentre i miei compagni di classe andavano entusiasti, quasi in pellegrinaggio, alle sommosse di Hoyerswerda e Rostock, io sedevo con altri amici nei centri di accoglienza per richiedenti asilo della zona, per dimostrare solidarietà a chi ci viveva, a testimoniare che non erano ancora impazziti tutti. Non eravamo più bambini, ma non eravamo ancora nemmeno adulti, quando attorno a noi è crollato il mondo con un intero sistema di valori. Sembrava una guerra, che ci ha trasformato in guerrieri. Alcuni di noi lo sono ancora oggi.

Raccontare come scrittori o giornalisti la scena della destra radicale è importante, ma anche pericoloso. Come affronta il pericolo?

La paura non è una buona consigliera, è inappropriata anche l’imprudenza. A differenza di molte mie colleghe o colleghi giornalisti, al momento non sono minacciata in maniera diretta. È importante dimostrare solidarietà: la libertà di stampa è un bene prezioso e nel 1989, nell’ex DDR, molte persone si sono battute per ottenerla, rischiando molto. È grottesco che oggi venga attaccata da politici di destra, rifacendosi a quel periodo di sconvolgimenti.

Nei Paesi Bassi è invitata a leggere il Suo libro a classi scolastiche che conoscono il periodo della caduta del Muro solo attraverso i racconti. Cosa può insegnare quest’esperienza a ragazze e ragazzi?
 
Da un lato, mi impegno a far passare il messaggio che tutto – compreso uno stravolgimento nel mondo – è possibile in qualsiasi momento, nulla rimane uguale per sempre; dall’altro, voglio mostrare quanto sia importante aver cura e rispetto del prossimo, pensare con la propria testa e non seguire chi promette soluzioni semplici. E che le azioni congiunte e solidali sono sempre più fortunate rispetto alla contrapposizione o alla ricerca di capri espiatori quando qualcosa non va. Tutto dipende da ognuno di noi e nessuno è troppo piccolo per alzare la voce.
 

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