Nell'ombra
Polesia, Bielorussia

Bielorussia
Foto: Andrej Liankevich

Nelle vaste aree paludose della Polesia, nel sud della Bielorussia, i villaggi seguono ancora il ritmo di antiche tradizioni precristiane.
Quasi uniche rimaste le donne anziane, dimenticate e lontane da urbanizzazione e globalizzazione.


Andrei Liankevich:
Capire la Polesia

Fine settembre 2018, ultimo viaggio
Un viaggio in Polesia è sempre un'avventura, la scoperta di qualcosa di nuovo e un ampliare i confini della comprensione su cosa sia la Bielorussia. Sono stato in circa 30 case e tutto ha l’aspetto di 20-30-40-50 anni fa. Posso dirlo con certezza: la Polesia è un fenomeno unico.
La Polesia è infatti una “civiltà” a sé, con un proprio ritmo nello scorrere del tempo, una propria lingua, cultura e modo di comunicare. Nelle conversazioni e negli scherzi tra persone vicine del villaggio ci sono sempre battute e atteggiamenti aspri e sguaiati - "Porco", "Troia", ecc.
Ma lo si fa sempre con bontà e rispetto per l'interlocutore, concedendo all’altro la possibilità di rispondere “per le rime”. Nelle parole rimane comunque sempre un senso di rispetto. È difficile da credere, bisogna averlo sentito.
A tavola, dopo il concerto che si è tenuto nel circolo del villaggio di Pogost, tali parole si possono sentire ripetutamente, rivolte a coloro che hanno deciso di non prendere parte alla bevuta e non festeggiare insieme uno spettacolo riuscito. Addurre scuse come malattia, età, farmaci assunti, non funzionano. Ogni quarto d’ora questa piccola messa in scena si ripete e finisce sempre con lo stesso risultato: tutti bevono, almeno un po’.
In ogni casa, senza eccezione, ti invitano sempre a sederti a tavola, ti offrono da mangiare, qualcosa da portarsi dietro come regalo: noci della buona annata di quest'anno, un enorme pesce essiccato, о semi di zucca da mangiare durante le lunghe sere invernali.
Ad autunno inoltrato in Polesia il raccolto è già stato fatto. Tutte le preoccupazioni  girano attorno a zucche e semi. Il loro raccolto è enorme. Tutti i campi sono gialli di zucche da raccogliere, o di quelle tagliate e gettate nel campo. Marciranno e fertilizzeranno il terreno per il prossimo raccolto.
Oche. Anatre. Galline. Un numero enorme in tutti i villaggi. Sono allevati, amati, mangiati.
La nonna Katia Pancenia ha raccontato con un misto di affetto, orrore e risate di quando aveva rotto il collo al gallo e l’aveva abbandonato a terra. Una volta a letto, nel momento di addormentarsi, si è ricordata che il gallo la stava ancora aspettando. Si è alzata e ha cominciato a cercarlo - il gallo non era più là dove lo aveva lasciato.
Pensava che l’avessero portato via i cani dei vicini. Entrata in casa l'ha visto seduto in un angolo della stanza ... Ha iniziato a pregare e a farsi il segno della croce. Non riusciva a spiegarsi la resurrezione del gallo. Ha cominciato a parlargli e a chiedergli perdono per aver cercato di ucciderlo. Si è avvicinata e si è resa conto che il gallo in realtà era finto nell’angolo portato dalle convulsioni e lì vi era rimasto, appoggiato al muro. Per sempre. Il gallo era freddo.
E tutto questo lo ha raccontato tra risate e scoppi di gioia, poiché tutto è finito bene…
Mani di fata, tutte senza eccezioni, ti regalano teli tradizionali, tovaglioli. Non lascerai mai la casa di un Paliasciuk (polesiano) senza regalo: questa è la legge della “civiltà” polesiana.
In nessun altro posto della Bielorussia le case sono decorate in questo modo, i ricami fatti a mano occupano ogni spazio - pareti, letti, pavimento ...
Mi sono sinceramente chiesto come sia possibile che persone che fanno una vita così difficile e dura trovino il tempo di ricamare.
Una tessitrice ha risposto semplicemente: si fa di notte. Ha detto che dopo la morte di suo figlio, ha ricamato e ricamato all'infinito con colori accesi e vistosi. Era una psicoterapia, per non andare fuori di testa e per non togliersi la vita.

Andrei Liankevich:
Secondo viaggio in Polesia

7-12 giugno
“Non piove da aprile” commenta tranquillamente la gente del posto. Qui in mezzo alle paludi bielorusse gli abitanti prevedono che tra un mese i pozzi si saranno asciugati e che non ci sarà più acqua. Siamo in Polesia – la regione più enigmatica e nel contempo mite della Bielorussia.  Nei villaggi il cibo si mangia ancora nelle pentole di ghisa, si parla una lingua mista tra ucraino-polacco-bielorusso e nei cortili si tengono le “ciaika”, barche con cui ai bei tempi si andava al negozio, a scuola, al lavoro. Si tengono anche per i periodi di acqua alta.
Venerdì - Zarudzie. Nei cortili regna la calma. La gente anziana si nasconde al fresco delle case di legno, ornate all’interno con icone ricoperte da drappi fioriti e con i classici divani sovietici. Qualcuno gira per l’orto. “Mi fanno male le gambe, mi sono sdraiata a riposare” dice nonna Ania con vivi occhi d’aquila. Ci invita a entrare. Il marito e il figlio sono morti. Le figlie vivono a Minsk, vengono a trovarla spesso. Infatti la casa, una volta ornata con tele sfarzose tessute a mano, è stata trasformata in un appartamento di città. Lavora a maglia, le vicine ricamano. Cos’altro potrebbe fare una persona solitaria in inverno – solo lavorare a maglia e guardare la TV.
Incontriamo Natallia Lukinishna, insegnante di bielorusso: “Sognavo di fare la giornalista”, dice contenta di vedere gente e avere ospiti. Fu Ryhor Baradulin (poeta della letteratura classica bielorussa) chi mi dissuase dal farlo. Entrai così invece alla facoltà di filologia.” Natalia si fa fotografare con le sue oche. Ci conduce poi dalla novantenne, Galina Jakauleuna, suo padre andò a lavorare in America ancora prima della Grande Guerra. Il nostro percorso segue il tracciato del principale ecosistema acquatico della Bielorussia meridionale, Bug-Prypiat. In primavera qui ancora oggi come 100 anni f, si allaga tutto. La Polesia si trasforma in un mare. La gente del posto che ha sentito parlare di Erodoto, non esclude che l’antico greco avesse ragione nell’affermare che in questa regione un tempo ci fosse un mare o un grande lago. Da dove arriva altrimenti tutta quest’acqua?!
Sabato - Kudrycy. Il villaggio-isola, dove la civiltà arrivò solo alla fine degli anni 90 grazie alla costruzione della strada. Solo qui si possono ancora vedere le famose case coperte con tetti di giunco.
Domenica - Lakhauka. Facciamo colazione con frittata, frittelle di ricotta e caffè lungo. Quando questa signora 80enne decide di farsi fotografare senza fazzoletto in testa, appare subito più giovane di trent’anni e ricorda di quando cantava e si dedicava all’arte. Il marito era così buono che non era mai geloso di lei. E aveva tanti vestiti. Ma quest’inverno glieli hanno mangiati i topi.
Livio Senigalliesi:
Il luogo dove il tempo si è fermato
Il mio viaggio in Polesia, 12-21 maggio
Le Paludi del Prypjat sono una vasta zona umida situata lungo le rive del fiume Prypjat'. Sono conosciute anche col nome di "Paludi di Pinsk" e si estendono tra Bielorussia meridionale ed Ucraina nord-occidentale per 480 km. La densità di popolazione è bassissima e i pochi villaggi ancora abitati sono dispersi tra la natura selvaggia. Tale isolamento ha mantenuto fino ai nostri giorni una assoluta originalità di usi e costumi. Anche la lingua usata dagli abitanti del luogo differisce dal bielorusso. Viene detta “tresianka”, un misto di russo, bielorusso, lituano che affonda le sue origini nella notte dei tempi. Gli abitanti della regione, chiamati ‘Polishchuks’, hanno una grande capacità di resistenza e adattamento. Conducono una vita d’altri tempi, legati alla natura, al corso delle stagioni e mantengono tradizioni e modi di vivere davvero unici. Andare alla loro scoperta è stata una vera e propria avventura che ci ha portato alla conoscenza di persone straordinarie, ricche di umanità e di sentimenti non comuni. I loro ritmi di vita sono così diversi da quelli tipici della società moderna e industrializzata. La nostra ricerca ci ha permesso di raccogliere delle testimonianze (fotografie, storie, filmati) che sono un bene che è nostro dovere diffondere e valorizzare.
Sulla strada per Pinsk
Lasciata alle spalle la capitale Minsk, percorriamo chilometri di campagna coltivata a colza e grano. Alle zone agricole si alternano fitte foreste che arrivano fino al limite della carreggiata. Stento a immaginarmi quanto sia diverso il panorama durante l'inverno quando “la lunga notte” e la tormenta avvolgono ogni cosa. Il tempo trascorre gradevolmente parlando con Maxim - valente guida ed interprete - delle origini linguistiche della Polesia. ”Le prime tracce della lingua palessiana appaiono nel XIX° secolo. La loro lingua fu un punto di passaggio tra le lingue baltiche e quelle slave parlate in queste regioni.” Arriviamo intanto al villaggio Vialikaya Hats (Grande Palude), luogo d'origine degli avi di Maxim. Grazie a ciò Maxim è la guida ideale per questo viaggio di ricerca che si prefigge di raccogliere le rare testimonianze di un mondo a noi sconosciuto ed in via di estinzione. Del vecchio villaggio, considerato la 'porta della Polesia', rimane ben poco. Visitiamo il cimitero con le antiche croci ortodosse e da questo panorama deserto e silenzioso, spuntano come d'incanto due anziane contadine. Ci guardano con sorpresa. Maxim le avvicina e parlano in lingua locale. Katsiaryna Konzum (73) e Basulay Marija (75) sono le ultime due abitanti del villaggio. Raccontano: “Qui una volta c'erano 600 contadini con le loro famiglie. Lavoravamo tutti nel kolchoz (proprietà agricola collettiva). Tutti i giovani se ne sono andati e i più vecchi sono morti. Siamo rimaste solo noi ma non ci pieghiamo. Continuiamo a tagliare foraggio per le mucche e piantiamo il grano per fare il pane. Siamo forti. Ci facciamo compagnia e resistiamo”.

Passeggiando in Piazza Lenin
Arriviamo a Pinsk verso il tramonto. Attirati dalle musiche e dal coro delle canzoni popolari ci avviciniamo al palco allestito in Piazza Lenin. Quattro giovani ballerine in abito tradizionale sono felici di posare per il fotografo straniero: Violeta, Veronica, Marija e Mazdina. Fare parte del balletto folkloristico della Polesia le riempie di orgoglio e mi rendo conto che in questo angolo di mondo le tradizioni popolari creano un forte legame sociale tra le generazioni. In un sontuoso palazzo - un tempo sede del Collegio dei Gesuiti - visitiamo il Museo etnografico accompagnati da Svetlana, una signora che conosce ogni reperto e ne racconta con passione la storia. Molta importanza rivestono i vestiti e i tessuti tradizionali, tutti prodotti a mano. L'elemento essenziale dell'abito maschile era la “kalita”, una sorta di portafoglio usato dal capo-famiglia per contenere il denaro. Era un simbolo di potere. La visita al Museo termina con il settore dedicato alla pesca, l'attività tipica dei polesiani che vivono da sempre tra le acque del fiume ed i canneti della vasta palude. La loro barca - tuttora in uso - viene detta “ciaika” (gabbiano). E' di legno, slanciata e a fondo piatto. Le tradizionali reti sono ora proibite dalle norme volute dalle guardie forestali a tutela dell'integrità del Parco Naturalistico che protegge tutte le specie animali e vegetali a tutela dell'area umida più integra d'Europa.

Gli eroi della Polesia, 14 maggio
Usciamo da Pinsk e costeggiamo il corso del fiume Pina. Ci viene segnalata la frazione Kudrichy, dove vivono ancora alcune persone circondate dalla palude. Fino a pochi anni fa la strada non esisteva ed i villaggi erano veramente isolati. L'unico mezzo di comunicazione era la barca o il cavallo. Le poche strade di collegamento della regione della Polesia sono state costruite negli anni '90 dopo l'incidente della centrale nucleare di Chernobyl. Io e Maxim pensiamo di esserci persi quando vediamo una vecchia isba. Proseguiamo a piedi e troviamo due donne intente a coltivare l'orto. Ci sorridono e si avvicinano curiose alla staccionata. Si chiamano Valentina Kolb e Marija Lapushka. “Da dove venite? E' tanto tempo che non vediamo stranieri!” dice Valentina. “Questo è il villaggio Kudrichy. Un tempo eravamo in 200. Lavoravamo e vivevamo d'amore e d'accordo. Ora siamo rimasti in 10. La gente di Pinsk ci chiama “gli eroi” perché siamo gli ultimi a fare questa vita. Siamo i più vecchi e i più legati a questa terra. Quest'isba é l'unica cosa che abbiamo. Siamo poveri ma voi siete i benvenuti”, e ci invitano a bere un tè.
Le pareti esterne della casa hanno un bel colore carta da zucchero. L'interno é semplice ma ordinato. Conversiamo piacevolmente e poi ci consigliano di recarci dal capo del villaggio. Salutiamo e riprendiamo la marcia fino alla prossima isba dove vivono Maknovids Moisiej e la moglie Volga. Lui ha 77 anni, lei 72. Moisiej dice con orgoglio “Il giorno in cui sono nato (1941), i nazisti invadevano la Polesia. Mio padre era al fronte. Pinsk bruciava ed io emettevo il primo vagito. Seguì un'infanzia difficile fatta di fame e di paura. Poi nel dopoguerra le cose si sistemarono e abbiamo vissuto lavorando la terra e allevando mucche e maiali del Kolchoz. Dopo la fine del Comunismo è andato tutto in malora e adesso ci restano solo le galline ed un cavallo ma ce li facciamo bastare. Viviamo di una piccola pensione e non andremo via di qui. Restiamo fedeli al nostro nido come le cicogne!” Moisiej e Volga sono gentili e ospitali e si fanno fotografare volentieri seduti sul divano di casa con la fotografia scattata il giorno del loro matrimonio. 

Le parole dell’eremita, 15 maggio
Dormiamo a casa di Oleg Sadovsky, una guardia del Parco Naturalistico che ha restaurato la vecchia isba di famiglia per ricavarne un bed&breakfast. “L'unico modo per far rivivere questo villaggio, destinato all'oblio, è quello di attrarre turisti appassionati di natura”. La mattina seguente Oleg ci propone un giro in barca e ci affida al suo vicino Slava Batujev (63) che usa ancora una vecchia “ciaika” a remi. Tra la fitta vegetazione intravvediamo una vecchia isba. Sembra tutto decadente e abbandonato, ma tra l'erba alta ci viene incontro un vecchio. Sembra un folletto del bosco. Si copre dalla testa alle ginocchia con un pezzo di plastica per evitare le punture d'insetti e zanzare che qui nella palude sono davvero aggressive, quelli del villaggio lo chiamano “l'eremita”. “Andate via! Non voglio parlare con nessuno!” Ma poi racconta: “Mi chiamo Anatoly (Anton) Makhnavec. Sono nato in questa casa 70 anni fa. Qui ha vissuto mio padre, mio nonno e il nonno di mio nonno. Ora cade tutto a pezzi...guardate il tetto!"
“Al tempo dei Soviet c'era giustizia! C'era lavoro per tutti e se uno rubava finiva in carcere a San Pietroburgo! Poi Mosca ci ha imposto le sue regole economiche e dovevamo lavorare come schiavi. Eravamo alla fame. Sono andato a studiare in città e mi sono diplomato. Voi mi vedete ridotto come un barbone ma sono una persona rispettabile. Quando ero giovane ho ricevuto incarichi dal Partito ed ho viaggiato per conto dello Stato in Brasile, Argentina, Canada e Cuba... Qui al Kolchoz si lavorava duro ma ogni anno si faceva una gran festa con canti e balli popolari la “Talaka”. Era un momento di ritrovo per tutti i contadini della regione, si festeggiava il raccolto e ci si preparava al lungo inverno”. Poi cambia discorso e ci spiega l'etimologia e le radici della parola "spasiba" (grazie). ”Non si dovrebbe dire spasiba ma spasibog che significa 'Dio ti salvi'. Ma da cosa il buon Dio ci dovrebbe salvare? Dall'ingiustizia! Questo si é il vero male dei nostri tempi! Con la democrazia non ci sono più regole e ognuno fa come gli pare. I ricchi sono sempre più ricchi e prepotenti e noi poveri siamo sempre più poveri!”.

La figlia del Prypiat, Pagost (Turau) 18 maggio
Superato il centro storico di Turau, prendiamo una strada sterrata in direzione del villaggio di Pagost, un piccolo agglomerato di isbe bagnato dal fiume Prypiat. Abbiamo appuntamento con una persona molto speciale. Kacjarina Panchenja (76) incarna tutte le tradizioni della Polesia. La rarità e il valore della sua testimonianza sta proprio nei suoi antichi saperi tramandati solo attraverso la trasmissione orale delle canzoni e dei riti popolari. Quando la incontriamo ci accoglie vestendo l'abito tipico, ricamato con le sue mani. Seduta all'ombra del pergolato, la sua vicina di casa Julia fila il lino con un arcolaio e produce tessuti con un vecchio telaio di legno. Qui tutto é rimasto come una volta. Tutti nutrono un gran rispetto per Kacjarina che dimostra forza e carisma.
“Quando ero giovane, il capo del Kolchoz ha sentito la mia bella voce ed ha voluto che cantassi del coro folkloristico della regione. Dal 1980 sono direttrice artistica e finché la memoria mi aiuta, ricordo e canto 400 canzoni popolari di altri tempi. Me le ha insegnate mia nonna Antonina.
Molte canzoni riguardano la Guerra Patriottica, l'amore, il lavoro nei campi o la vita di palude con i suoi animali”. E dice ancora: ”Quando arriva la primavera ed inizia il disgelo, il fango arriva alle ginocchia. Allora mettiamo in salvo gli animali e stendiamo le reti per catturare i pesci...e poi aspettiamo con pazienza che le acque si ritirino”. Facciamo una passeggiata fuori dal recinto della vecchia isba colorata di blu e giallo e Kacjarina aggiunge “Questa via si chiama Konsomolska Ulica. Qui abitavano 47 famiglie. Tutte queste case sono vuote o distrutte dalle intemperie. I vecchi sono morti e i giovani sono andati a Turau. Figli e nipoti non hanno voluto continuare le tradizioni. Qualcuno torna per la 'Festa d'Estate'...quella che non chiamiamo 'Festa dei fiori di felce'. Allora le giovani danzano sulla riva del fiume e lanciano le loro corone di fiori nell'acqua del Prypiat pregando di trovare un marito nel corso dell'anno. Le ragazze guardano le corone di fiori trascinate dalla corrente e sognano di trovare uno sposo tra i giovanotti aitanti che lanciano le loro frecce infuocate verso il sole al tramonto”. A Kacjarina ed al suo stile di vita è stato dedicato un film dal titolo “La figlia del Prypiat”.

Storia di Hanna, 16 maggio
Entriamo a Stolin, una bella cittadina con ampi giardini pubblici, abitata da diecimila persone.
Il simbolo della città é la cicogna ed infatti è comune vedere i grandi nidi sui comignoli delle isbe o in cima ai pali della luce. Il confine bielorusso-ukraino é a soli 15 chilometri e non mancano i posti di blocco militari. Qui nel 1942 fu creato un ghetto che raccoglieva più di 7000 ebrei rastrellati nelle città vicine. Il ghetto sorgeva in un luogo malsano sulle rive del fiume Bank. Erano in maggioranza donne vecchi e bambini. La “liquidazione del ghetto” si svolse l'11 settembre 1942. La strage venne eseguita da un reparto di cavalleria della Wehrmacht presso l'aeroporto militare. Qui la gente non dimentica. Le tracce del secondo conflitto mondiale non a caso affiorano anche dalla testimonianza della signora Hanna Maiseevna che incontriamo nel vicino villaggio di Staryna. Hanna, classe 1927, è ancora molto lucida ed attiva. Sta accudendo polli e maiali e ci apre sorridente il cancello invitandoci in casa per una chiacchierata. L'interno della piccola isba è pieno di fotografie in bianco e nero che testimoniano il suo legame col passato e le vicende famigliari. Hanna racconta “Nel 1941 arrivarono le truppe tedesche e restammo un anno sotto occupazione, all'età di 15 anni, fui deportata in Germania in un campo di lavoro. Tutti noi operai eravamo prigionieri provenienti da varie Nazioni. Producevamo bombe e granate. Nel campo vivevamo in baracche. La mattina e la sera ci davano una minestra di barbabietole. Eravamo tutti deboli e molti si ammalarono. Dopo tre anni arrivarono i soldati americani ci liberarono e si presero cura di noi. Poi arrivò un generale russo e ci disse “I vostri genitori vi aspettano. E' ora di tornare a casa. Avete finito di soffrire!”. “Così iniziò il lungo viaggio di ritorno. Quando arrivai qui a Staryna era tutto distrutto. Della famiglia non c'era traccia. Era rimasto solo il nonno. Così abbiamo vissuto per tre anni nella miseria. Dei miei genitori e dei fratelli non seppi più nulla. Non c'era cibo e il nonno andava a pescare nel fiume per mangiare del pesce. D'inverno preparavo una minestra di patate. Appena ci riorganizzammo, ripresero le attività del Kolchoz le cose andarono meglio.
Dopo tre anni mi sono sposata. Si chiamava Archom Alexandrovic. Abbiamo avuto una buona vita insieme. Sono nati i nostri figli Nikolaj e Andrej  e sono nonna di 9 nipoti. Archom, mio marito, è venuto a mancare 22 anni fa e mi sento sola. I figli si sono trasferiti perché qui nella palude è difficile vivere e manca il lavoro”.


A fine marzo 2018 Andrei Liankevich ha compiuto un viaggio di perlustrazione in Polesia: "Sono appena tornato dal primo giro di ricognizione. La primavera è fredda quest’anno, così ho trovato ancora ghiaccio e neve – niente fango. Queste foto sono le mie impressioni della gente del luogo".






 

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